TURANDOT al Teatro Real di Madrid – Recensione

di Natalia Di Bartolo – Anna Pirozzi nel ruolo del titolo nella produzione di Robert Wilson, con Jorge de Leon e Ruth Iniesta, Direttore Luisotti.


Turandot è l’unica opera in cui il libretto collochi l’ambientazione “al tempo delle favole”. Oggi, in un momento in cui i registi si sbizzarriscono (anche troppo) a modellare a propria immagine e somiglianza ambientazioni, scene, costumi e quant’altro, in un presunto (e spesso immotivato) svecchiamento dell’Opera, nella produzione di Robert Wilson , il 14 luglio 2023 nella Temporada ’23/’24 del Teatro Real di Madrid, che fossimo a Pekino (il che è pure specificato nel libretto) era intuibile, ma che ci si trovasse “al tempo delle favole” era certo. Se ne riparlerà più avanti.

Sul podio il Maestro Concertatore e Direttore d’Orchestra Nicola Luisotti, che, alla guida dell’ottima compagine madrilena, ha scelto di eseguire l’opera completata dal finale di Franco Alfano. E’ stata una scelta, a suo dire, dettata dall’efficacia del duetto finale. Tutto è relativo e tutto, ovviamente, attiene al gusto ed alla sensibilità del direttore; dunque, coloro che amano, come chi scrive, che l’opera incompiuta del genio Puccini si debba concludere alla morte di Liù, lì dove il Maestro la lasciò morendo senza essersi mai deciso (e non avendone, purtroppo, avuto il tempo) su come rendere “simpatica” nel finale una principessa antipatica per eccellenza nel corso dell’intera opera, hanno ascoltato anche il decoroso e di terrificante difficoltà (soprattutto per la protagonista principesca), finale prescelto.

Al che, ovviamente, avrebbero tremato le vene dei polsi a qualsiasi soprano, anche ben esperiente. Anna Pirozzi, che in questa recita impersonava la principessa Turandot, invece, si è sgranocchiato perfino il finale alfaniano come fosse una caramella. Il soprano ha dato prova di possedere non solo una voce dalla proiezione assolutamente rilevante, che spiccava su tutte le altre voci e riusciva a superare il “muro sonoro” che a volte il Maestro Luisotti, lasciandosi prendere un po’ la mano dalle dinamiche pucciniane, mandava alle stelle, ma affrontando l’intera parte con la semplicità di chi sappia bene il fatto proprio e che non abbia neanche a battere ciglio di fronte alle difficoltà più improbe. Non solo: è stata capace di modulare con finezza ciò che di solito gli altri soprani emettono in “tutto forte” e a non “gridare” dove molti soprani decisamente urlano. Dalla sua ugola sono usciti solo suoni modulati alla perfezione: nei piano, soprattutto, che raramente è dato ascoltare nelle Turandot che non siano più che capaci di affrontare questa parte. Il tutto con una naturalezza ed un equilibrio fra i registri che non mostravano sforzo o forzatura alcuna. Chapeau!

Al suo fianco, il tenore Jorge de Leon, Calaf, che sostituiva in questa recita l’indisposto Michael Fabiano, è parso, invece, vocalmente “appannato” rispetto ai propri standard, a volte penalizzato da un vibrato che rendeva poco gradevole la sua performance; ma il de Leon, nel complesso, soprattutto nel celeberrimo “Nessun dorma”, ha “tenuto” la parte , sia pure scenicamente spaesato dalla regia, di cui si parlerà più avanti.

La Liù di Ruth Iniesta è parsa poco duttile nell’emissione; qualche durezza negli acuti, proiezione che non sempre superava il baluardo dell’orchestra, la cantante aveva, oltretutto, un costume ingombrante che certamente la disturbava non poco. La dolcezza di Liù è rimasta così, nella maggioranza dei casi, nelle intenzioni pucciniane, ma la Iniesta, cantante comunque di rilievo, ascoltata recentemente a Catania come Giulietta ne “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini, probabilmente ha una vocalità poco “pucciniana”.

Orientale di natura e gradevole il Timur di Liang Li, altrettanto corretto l’imperatore Altoum di Vicenç Esteve. Buona la prova del Coro del teatro madrileno, diretto da Andrés Máspero e del coro di voci bianche Pequeños Cantores de la JORCAM , diretto da Ana González.

Ping, Pang e Pong, rispettivamente Germán Olvera, Moisés Marín e Mikeldi Atxalandabaso, vengono, in questa recensione, tenuti per ultimi, per un motivo ben specifico. Sia pur vocalmente ben coordinati, hanno ecceduto nella caratterizzazione dei personaggi e sono andati a volte fuori dalle righe, risultando invadenti. E’ proprio nella performance dei tre ministri imperiali che risulta palese la differenza della resa scenica rispetto a coloro che li avevano preceduti nella produzione omologa del Wilson, realizzata, sempre al Real, nel 2018. Ripresa dunque da tale produzione, modificando solo i costumi di Ping, Pang e Pong e rendendoli (non si sa bene perché) tutti neri e occidentali, la messa in scena del Wilson si presentava sicuramente meno elegante ed efficace della precedente. Questo sia perché non è detto che le “riprese” funzionino sempre, sia perché anche i protagonisti sulla scena hanno input fisici e caratteriali diversi, che non sempre si adattano ai dictat registici. Dunque la differenza qualitativa fra le due versioni della stessa produzione si è notata soprattutto a partire dai tre fondamentali personaggi. Nel 2018, costumi e trucco li rendevano più pregnanti e, pur non giustificandolo, davano un senso al loro caratteristico muoversi, oscillare, saltare ininterrotto (il che, cantando, non è certamente facile). Nella disamina della produzione del regista, a cui erano dovute anche scene e luci, con i costumi pesanti ed ingombranti di Jacques Reynaud, è dunque fondamentale sottolineare che, a parte i movimenti a volte assillanti di Ping Pang e Pong, si trovano radicate anche alcune difficoltà interpretative dell’intero cast, che è stato costretto a cantare in maniera statica, come in un concerto inespressivo.

Il palcoscenico, infatti, era concepito dal regista come un grande susseguirsi di tableaux vivents, in cui tutti i personaggi ed il coro si muovevano come fossero pupazzetti manovrati con i fili. I tre ministri erano gli unici personaggi , in scena, che avessero un minimo di dialogo, anche mimico-facciale tra di loro. Ogni personaggio era a se stante, non dialogava, non interagiva con gli altri, neppure nei duetti.

Probabilmente, l’intenzione del Wilson era quella di far apparire la scena come un teatrino popolato da figurine labili, come fossero di carta, che tremavano come foglie al vento, bidimensionali; forse intendeva ispirarsi anche al teatro delle ombre; ma qualcosa pure di giapponese trapariva, una sorta di richiamo anche al teatro NŌ; il che, sinceramente, rendeva questa Cina ai tempi delle favole un calderone di allusioni all’Oriente senza concretezza alcuna. Un Oriente generico, spoglio assolutamente, in cui il colore rosso, che connotava Turandot e coinvolgeva anche le luci, ovviamente simbolico, spiccava su tutti.

Apparentemente elegante, dunque, la messa in scena del Wilson si mostrava alla lunga troppo statica e fondamentalmente, se non arbitraria, quanto meno, controproducente per la resa degli interpreti.

Successo di pubblico, comunque, poiché la parte musicale, ovviamente, meritava più di un applauso.

Natalia Di Bartolo ©

Foto Javier del Real