ROMÉO ET JULIETTE all’Opéra National de Paris Bastille – Recensione

Di Natalia Di Bartolo – In una nuova produzione di Thomas Jolly con Benjamin Bernheim ed Elsa Dreisig, l’Opéra di Gounod torna a Parigi –


Dopo la grande attesa a Parigi per la messa in scena all’Opéra Bastille di “Roméo et Juliette” di Gounod, ci si sarebbe aspettato, nella recita del 26 giugno 2023 a cui questo scritto si riferisce, il vertice di tutti i vertici da una nuova produzione dell’opera.
Accostarsi al capolavoro di matrice shakespeariana, trafigurato ancora dal genio musicale francese e metterlo in scena dovrebbe essere una sorta di rito, perché l’esecuzione, sia per chi la produce che per chi l’ascolta, induce un’immersione nel Divino. Dunque l’intera opera necessita di coesione complessiva, di una potente coesione; dovrebbe sfiorare supremi livelli interpretativi anche orchestrali; dovrebbe essere eseguita e messa in scena quasi con devozione, nota per nota…E la suddetta coesione dovrebbe, come sempre, partire dal golfo mistico, dal Maestro Concertatore e Direttore d’Orchestra.

Ascoltare invece, come è accaduto a Bastille, sotto la direzione del M° Carlo Rizzi, un’opera francese eseguita al metronomo, con precisione, ma in parte con distacco e con la solennità degna di un Don Carlos, già toglie alla scena un’alta percentuale di “collante”. Il maestro Rizzi, inoltre, ha diretto l’Opera tendendo ad appiattire le dinamiche al “tutto forte”, oltretutto con un intendimento agogico da cui non traspariva il dovuto afflato poetico, e che appariva più attento alla partitura che ai sentimenti empatici nei confronti del tema trattato in scena: questa è la sensazione ricevuta, soprattutto nella prima parte dell’opera. Poi, per fortuna, soprattutto nei momenti più tragici, è andato in crescendo. Inoltre, ha ripreso parti dell’opera appartenenti alla première al Palais Garnier del 28 novembre 1888, in una versione profondamente rimaneggiata, con all’interno un balletto, rispetto all’originale dell’opera, che aveva debuttato al Théâtre-Lyrique (place du Châtelet) il 27 aprile 1867: ha inserito l’intermezzo della ricomparsa della nutrice nella scena del primo colloquio tra Roméo e Jiuliette; ha inserito il balletto; ha fatto sì che l’opera si concludesse senza la frase “Seigneur, Seigneur, pardonnez-nous! ” in duetto, che si trova nel libretto dell’originale (sempre del 1867) di Jules Barbier e Michel Carré, ma semplicemente con il “Je t’aime” di Juliette. Filologicamente dunque, una sorta di mescolanza tra le due versioni che ha dato un senso di riapertura di tagli. Però, quest’ultima frase, cantata all’unisono prima di morire dai due protagonisti, è diventata un dato di tradizione ed è altamente funzionale, sia scenicamente che musicalmente, alla tragedia conclusiva. Dunque, lì dove dovrebbe trovarsi la culla della tanto preziosa “Tradition Francais”, è sembrato che la scelta del M° Rizzi togliesse, a prescindere dalla filologia, buona parte del pathos finale ai due interpreti.
Il suddetto“tutto forte” della pur ragguardevole Orchestra parigina si rifletteva in scena e, giocoforza, a volte veniva adottato anche dagli interpreti.

La bella Elsa Dreisig, Juliette, infilata dalla costumista Sylvette Dequest in una sorta di costume da “clown Bianco”, che la penalizzava non poco, di voce ne ha da vendere, ma dovrebbe curare la modulazione, curare l’espressione, seguire con più compartecipazione l’iter di vita sconvolgente del personaggio, eseguire con sentimento ciò che in tal modo va eseguito. Orecchie molto attente hanno notato la quasi perfetta esecuzione della cadenza iniziale di “Je veux vivre”, che la maggior parte dei soprani, a torto, abbrevia ancora, per difficoltà o per trascuratezza. La Dreisig l’ha eseguita, in fondo, com’è scritta, ma con il finale di tradizione. Però, dov’era la spensieratezza di Juliette fanciulla? Dove stavano i filati, i piano, le sfumature? Purtroppo non è il primo caso che si riscontra oggi nei giovani soprani, pur dotati: la scuola dei “filati” sembra essersi estinta. In compenso, la Dreisig ha ben eseguito la scena madre della pozione, pur mancandole un maggiore approfondimento del pathos, e comunque ha portato a termine l’opera a voce spiegata e senza intoppi.

Benjamin Bernheim era un Roméo dal quale ci si attendeva di più, sia dal punto di vista vocale, che da quello interpretativo. Il tenore si è dimostrato un Roméo forse oppresso dai fantasmi del passato glorioso che lo ha preceduto, ma anche mal guidato dal punto di vista registico. Dunque è parso anch’egli distaccato, poco empatico con Juliette, utilizzando la sua bella voce a volte perfino con un distacco scenico dal proprio personaggio che ha penalizzato sia lui che la coppia. Eppure è stato un Roméo nel solco della tradizione: ottima pronuncia, grande musicalità, si è concesso qualche piano in falsetto alla francese, ma sembrava a tratti “uscire” dal personaggio, per poi farvi rientro nei momenti clou. In ogni caso, è un gran tenore per questo ruolo e non solo: la sua vocalità si presta all’Opéra Français: lo ha dimostrato nel trionfale Faust che ha preceduto questa produzione e nel suo pregevole Werther. Una rarità, di questi tempi.

Gradevole lo Stephano di Lea Desandre, proveniente dal canto barocco (e si sentiva), di spessore tutti gli altri interpreti, tra cui spiccavano il Capulet di Laurent Naouri, il Frère Laurent di Jean Teitgen, il Mercutio di Huw Montague Rendall e il Tybalt di Maciej Kwaśnikowski.
Il Coro, istruito da Ching-Lien Wu,ha fatto ascoltare ovviamente una pronuncia perfetta, ma era preso anch’esso dal clima complessivo di distacco e troppo impegnato a muoversi, oltre che a cantare. E qui, a questo punto, va menzionato il responsabile sulla scena: il regista Thomas Jolly che, tenendo fede al proprio cognome, ha creato un pout-pourri di stili e ambientazioni, ricreando, con le scene di Bruno de Lavènere, su una piattaforma girevole (anche troppo), la sontuosa scalinata d’ingresso dell’Opéra Garnier. Trovata efficace, bisogna ammetterlo, ben illuminata dalle luci di Antoine Travert: il teatro di tradizione dentro il teatro d’innovazione.

Pare che il Jolly sia fine conoscitore e addirittura si erga a ri-lettore di Shakespeare e che volesse in questa messa in scena parigina esplorare il concetto dell’ossimoro. In Shakespeare, la figura retorica è strutturata in modo tale che gli elementi antonimici (amore/odio) non siano necessariamente dialettici e dunque l’ossimoro è ben difficile da mettere a fuoco. Che qui s’intravedesse tale ossimoro? Poi però, calcando la mano, ha popolato il palcoscenico più di mimi che di ballerini, scatenati, guidati dalla coreografa Josepha Madoki nella sfrenata “danza waacking”, creata underground per affermare il proprio diritto di scelta e di libertà, sulla musica “disco”, dalla comunità gay latino americana di Los Angeles negli anni ’70. Intervento invasivo, stile Broadway musical, che, come si accennava, ha coinvolto perfino il Coro, che si è prestato a queste coreografie contorsionistiche, come pare usi oggi tra registi “innovativi”. Ma i costumi oltremodo variegati e vistosi, “pluri-stilistici”, della suddetta Sylvette Dequeste e la confusione, che stava tra un ballo in maschera ed un circo, creata in tal modo sul palcoscenico, soprattutto al primo atto, hanno guastato l’atmosfera e addirittura penalizzato gli interpreti.
Eppure il Jolly ha avuto qualche lampo d’efficacia. Dell’ossimoro, che in tale contesto avrebbe dovuto essere esplorato in modo altamente autorevole, c’era ben poco da gustare, in verità, ma si apprezzavano alcune trovate efficaci, soprattutto nella scena di Mercutio che descrive la Regina Mab e nei momenti onirici di Juliette. Ma il Jolly ha deciso che spesso gli interpreti principali stessero lontani, che non si guardassero negli occhi nei duetti, rendendo loro difficile la creazione della cosiddetta “chimica” di coppia, propria dei protagonisti. Addirittura ha fatto sì che Roméo e Juliette si svegliassero da un sonno dichiaratemente saporito all’alba della notte di nozze, come se, in una situazione come quella, i due sposi sventurati avessero avuto perfino il tempo (e lo stato d’animo) di addormentarsi pacificamente per poi discettare se aver udito l’usignolo o l’allodola.

Nel finale, infine, si è intravista la fotocopia, sia vocale che scenica, di una meravigliosa produzione inglese di molti anni fa, con storici, indimenticabili interpreti.
A questo punto, nell’intenditore non potevano che mettersi in moto i ricordi e concludere, obtorto collo, che perfino a Parigi l’Opéra Français sembra non avere più, oggi, la valenza artistica complessiva che dovrebbe avere. Forse, quando le aspettative sono di così alto livello, vederne disattesa più di una dispiace, nonostante il grande successo di pubblico della serata.

Natalia Di Bartolo ©

Roméo et Juliette

Musica di Charles Gounod,

Libretto di Jules Barbier e Michel Carré

Roméo: Benjamin Bernheim
Juliette: Elsa Dreisig
Frère Laurent: Jean Teitgen
Mercutio: Huw Montague Rendall
Tybalt: Maciej Kwaśnikowski
Benvolio: Thomas Ricart
Comte Capulet: Laurent Naouri
Pâris: Sergio Villegas-Galvain
Le Duc: Jérôme Boutillier
Grégorio: Yiorgo Ioannou
Stéphano: Lea Desandre
Conductor
Carlo Rizzi
Stage director
Thomas Jolly
Chorus master
Chin-Lien Wu
Costume designer
Sylvette Dequest
Lighting designer
Antoine Travert
Set designer
Bruno de Lavenère
Choreographer
Josépha Madoki
Orchestre de l´Opéra national de Paris
Chorus
Choeurs de l´Opéra national de Paris

Foto Vincent Pontet OnP, Teaser OnP