LUCIA DI LAMMERMOOR a Catania – Recensione

di Natalia Di Bartolo – Il M° Stefano Ranzani sul podio al teatro Massimo Bellini di Catania: alla prima, Maria Grazia Schiavo e Francesco Demuro in una Lucia di gusto italiano.


Lo splendore della musica donizettiana, in Lucia di Lammermoor, è l’apice del capolavoro del genio bergamasco: mai caduta nel dimenticatoio fin dal debutto nel 1835 , fa parte da sempre dei cartelloni dei teatri più prestigiosi nel mondo.

Al Teatro Massimo Bellini di Catania mancava dal 2013, da quando sul podio si ebbe modo di apprezzare il M° Emmanuel  Plasson, figlio dell’ancor  più celebre Michel. E qui, soprattutto per gli appassionati anche d’Opéra Français, viene spontaneo rilevare come bacchette francesi e bacchette italiane, sia pure nella stessa opera, ma in condizioni di diversa connotazione musicale, siano diverse.

Eppure il M° Plasson, da chi scrive anche allora particolarmente apprezzato e recensito , dirigeva la versione italiana, non quella in francese, ovvero la splendida  “Lucie de Lammermoor”; ma ben visibili tracce ne furono assolutamente rilevabili, allora, per gusto, tempi e dinamiche, nella sua direzione catanese.

Sul podio, all’attesa première del 12 aprile 2024, al Teatro Massimo Bellini di Catania, invece, l’italianissimo Maestro Concertatore e Direttore d’Orchestra Stefano Ranzani, ha diretto con gusto, tempi, dinamiche, andamento agogico assolutamente personali di gran Scuola e totalmente “italiani” e, dunque, assolutamente corretti. Non solo: il M° Ranzani, di capacità polimorfe tra Sinfonismo ed Opera, che aveva deliziato il pubblico catanese nell’appena trascorso concerto dedicato al Classicismo Viennese, ha preso letteralmente in pugno l’intera esecuzione, che evidentemente si trova nelle sue corde e ne tocca il più profondo sentire. Il Direttore ha guidato con maestria in porto una nave che oggi, per fortuna, navigava in acque più calme di quelle che avevano contraddistinto la produzione nell’anno suddetto al Bellini di Catania.

Una nave in cui la magnifica e nutrita orchestra del Teatro Massimo Bellini, ha dato il meglio di sé, galvanizzata dalla guida del M° Ranzani, che ha la capacità di coinvolgere emotivamente e professionalmente gli orchestrali: lo si era notato nel concerto precedente e lo si è notato anche in questa esecuzione della Lucia, non solo dai risultati eccellenti dell’organico orchestrale, coeso e motivato, ma anche e perfino dalle “facce note” soddisfatte e sorridenti che in esso lavorano da decenni, dalla “spalla” alla meravigliosa Arpa, alla compagine dei fiati, i corni in particolare, all’insieme di un’Orchestra che merita particolare plauso.

Le prove che precedono la prima di un’opera sono fondamentali e, a volte capita che si provi poco e male, per motivi a volte misteriosi e variegati. Non è stato questo il caso ed era palese, nella coesione di ferro tra golfo mistico e palcoscenico, dove un cast già interessante veniva fatto divenire di rilievo grazie allo spasmodico sostegno del Direttore. Perfino il Coro, istruito dal M° Luigi Petrozziello, pendeva dalla bacchetta del Ranzani e modulava su sua indicazione, frenando sonorità in eccesso ed amalgamando i suoni in maniera eccellente.

Gli interpreti, ovviamente, per primi, anche loro, ne hanno tratto estremo sostegno e giovamento.

Nel ruolo di Lucia, Maria Grazia Schiavo, bella voce rotonda, probabilmente adesso matura per un repertorio più “robusto”. La Schiavo è stata una Lucia sensibile ed empatica col pubblico. Non sempre questo accade, anche con le interpreti più note e celebrate e va a vantaggio di una voce ben calibrata, che ha fatto ascoltare bei filati e mezze voci (rarità, oggi, sui palcoscenici) e che si è distinta più nella cavatina e cabaletta del primo atto, che nella celebre scena della pazzia, introdotta nella partitura donizettiana dal soprano Nellie Melba nel 1889  e già nel 1893 canonizzata. La mancanza della glassarmonica è stata sopperita dal flauto traverso: il M° Ranzani ha fatto salire sul podio al proprio posto il lodevole solista, a duettare col soprano nel clou dei virtuosismi. Fascinazione del pubblico assicurata, applausi a scena aperta.

Applausi a scena aperta anche per l’Edgardo di Francesco Demuro, che ha sfoggiato pure sovracuti notevoli,  ma che dovrebbe evitare di sottoporre a stress la propria bella voce, poiché pare sia invalso l’uso, sui palcoscenici di oggi, di “stirare” un po’ troppo le voci a favore di un’espressività interpretativa più vicina al verismo che, in questa occasione, al pieno romanticismo donizettiano. Il Demuro ha tutti i numeri per essere se stesso e questo ci si aspetta da un’interprete capace e così musicalmente dotato.

L’Enrico di Christian Federici è stato caratterizzato da un bel colore e da una rilevante proiezione, ma ha palesato una tendenza al “tutto forte” che andrebbe modulata meglio: i presupposti vocali li possiede tutti, così come possiede presenza scenica e capacità interpretativa.

Un po’ troppo “baritonale” il Raimondo del basso George Andguladze, in problematica emissione dei gravi profondi, pur possedendo un bel centro, che potrebbe consentirgli di mettere a fuoco un altro tipo di repertorio.

Ben inquadrato l’Arturo di Marco Puggioni, graziosa la Alisa di Claudia Ceraulo e corretto il Normanno di Nicola Pamio.

Ma, per tornare al punto di partenza, questa Lucia catanese, nel suo complesso, ha “funzionato” bene: prova ne siano gli applausi a scena aperta di un pubblico assai folto, che al turno A non si vedeva così entusiasta da decenni. Anche perché la regia “tradizionale” di Giandomenico Vaccari ha saputo blandire gli umori degli spettatori, focalizzandosi sul dare risalto alle voci, in assoluta concordanza anch’essa col podio.

In un’intervista il regista aveva annunciato una Lucia “gotica” nel senso moderno della parola”, “scura”, addirittura “buia”. Invece, nelle scene e nelle proiezioni spartane ma efficaci di Alfredo Troisi, autore anche dei gradevoli costumi, e soprattutto nelle curatissime luci di Antonio Alario, la scena si è dimostrata un bell’agone per gli interpreti, circondati dalle ombre degli Avi, artefici, in fondo, dell’odio tra le famiglie di Lucia ed Edgardo. Ma il Vaccari li ha intesi anche come “spiriti burloni”, una sorta di Poltergeist che sposta gli oggetti e che compare e scompare, facendosi beffe dei viventi. Un po’ più da Commedia dell’arte i suoi fantasmi, che da atmosfera “gotica”, ma il regista si è palesemente divertito a sdrammatizzare, mantenendo il buon gusto di non lasciarli interferire troppo con le tragiche vicende sceniche dei protagonisti.

Applausi convinti, come accennato, accompagnati da espressioni verbali di “bravi” e richieste di bis per tutti. Il che ha un solo significato: il pubblico è assetato di “Qualità” e qui, nel complesso della produzione, evidentemente, l’ha rilevata.

Natalia Di Bartolo ©

Foto di Giacomo Orlando ©