AIDA a Monaco di Baviera – Recensione

di Natalia Di Bartolo – La nuova produzione del Michieletto al Bayerische Staatsoper, col Rustioni sul podio e un cast impeccabile.


Ormai siamo abituati, spesso obtorto collo, ad assistere a trasposizioni delle Opere in altri luoghi, in altri tempi. Ma, nel caso di Damiano Michieletto e della sua messa in scena di Aida, al Bayerische Staatsoper il 23 luglio 2023, il discorso va approfondito.

Scandalizzarsi per questa messa in scena, forse, sarebbe sciocco. Più sensato, invece, sarebbe realizzare che per scriverne occorrerebbe effettuare due recensioni, perché lo spettatore a Monaco di Baviera ha assistito contemporaneamente a due spettacoli diversi.

Ovviamente, quel che ci si aspetta da un’Opera è che venga eseguita come Dio comanda. E qui la prima recensione, quella riguardante il melodramma “Aida” di Giuseppe Verdi, libretto di A. Ghislanzoni, porta a sottolineare, con un vivo plauso, innanzitutto la concertazione e direzione d’Orchestra del M° Daniele Rustioni. Il Direttore ha dato una lettura ammirevole del capolavoro di Verdi: mai reboante, mai sopra le righe o soverchiante, ma cesellata, ricamata, quasi. Era così bello ascoltare quella musica, anche nelle parti non cantate, le sue sfumature, la solennità che non è stereotipo, la bellezza e la limpidezza dei suoni della magnifica Orchestra di Monaco per plaudire ad una serata di grazia. Le dinamiche splendenti, la bellezza e l’adesione dell’intero andamento agogico dell’opera verdiana hanno incantato l’ascoltatore.

Su ali del genere, quindi, “volava” un cast straordinario nel suo complesso, degno della direzione d’orchestra, in cui neanche la più piccola parte veniva interpretata in maniera poco gradevole o imperfetta.

La bella Elena Stickhina nel ruolo del titolo, ha dato prova di maturità vocale e di grande musicalità, guidata dai chiaroscuri delle dinamiche del M° Rustioni, ha saputo cogliere lo spirito del personaggio e ne ha reso l’intima essenza.

Riccardo Massi, nella parte di Radames, è stato impeccabile, gli è mancato il “pianissimo “morendo” del finale di “Celeste Aida”, ma gli si perdona: è improbo. Tutto è stato da lui eseguito con voce ben impostata, corposa, che dava il proprio apporto ai concertati, che non era mai eccessivamente eroica né, al contempo, troppo “lirica”.

L’Amneris di Judit Kutasi è stata di gran rilievo: bastava guardare l’appoggio, piantato al suolo come una quercia, nella sua postura, per intuire una tecnica ed una voce che si sono dimostrate adatte al ruolo, con una vocalità decisamente robusta e ben modulata.

L’Amonasro di George Petean è stato, come sempre, di ragguardevole intensità interpretativa e sonora. Il baritono ha impersonato un padre dolente ed autorevole, subendo anche una sorte registica inaspettata, perché ucciso da un colpo di pistola di Ramfis, alla fine del III atto.

Il suddetto Ramfis, Alexander Köpeczi, ha dato gran prova di sé e altrettanto il Re, Alexandros Stavakakris. Tutti gradevoli i comprimari, magnifico il Coro del Bayerische Staatoper, diretto da Johannes Knecht.

Dunque, musicalmente, si è assistito ad un’Aida da manuale. Allora, ci si chiede: dove sta il punto? Sta, come prima accennato, nello svolgersi sul palcoscenico di due spettacoli a se stanti, che s’intrecciavano, a volte con una certa studiata efficacia, a volte con involontario, comprensibile impatto negativo.

Si passi, dunque, alla seconda recensione.

Non che il tema della guerra, della vittoria e de suoi costi in termini di vite umane e mutilazioni e ferite che non valgono certo una misera medaglia al valore; del dolore di entrambi i popoli rivali e soprattutto del popolo sconfitto; i disagi, la fame, la desolazione non siano da trattare in uno spettacolo, anzi! Sono, purtroppo, di grande, particolare attualità. Ma ecco l’altro punto nodale: perché farlo manipolando un’Opera d’Arte come Aida, che ha una sua connotazione temporale e una sua precisa ubicazione?

Qui sta la stonatura. Infatti, con la scusa che i personaggi del capolavoro verdiano siano tra i più stereotipati nella storia del melodramma, a dire del Michieletto, e che si voglia approfondire la parte intimistica insita nella trama, non ci si può prendere la briga di creare uno spettacolo sovrapponendolo ad un altro spettacolo.

Lo spettatore competente guardava quella palestra desolata nelle scene di Paolo Fantin, illuminate da Alessandro Carletti, con i costumi sciatti di Carla Teti, le ceneri ed il fumo della guerra, la bara bianca del bambino ucciso e inevitabilmente immaginava in automatico il palazzo del Faraone, le vesti sontuose, i gioielli di turchese ed oro, la marcia trionfale e le danze sinuose al posto delle coreografie di Thomas Wilhelm, lo splendore di alcune storiche messe in scena. Nessuno ha il diritto nel teatro d’Opera, oggi, di costringere gli spettatori ad una mera “immaginazione”! Perché alterare l’equilibrio perfetto creato da Verdi per esprimere concetti comunque corretti e degni di rilievo? Lo si faccia creando uno spettacolo a parte, in cui la musica di Verdi non diventi una “scusa” per avere una colonna sonora impareggiabile, con i flash-backs e le proiezioni del “punto di vista” di Radames, a cura di rocafilm, che tanto il Michieletto regista cinematografico ama e porta anche sulla scena da regista teatrale.

Ascoltare le parole del libretto e sentirle pronunciate da personaggi che nulla avevano a che vedere con ciò che è scritto, oltretutto in un linguaggio aulico quale può essere quello del Ghislanzoni, stordiva lo spettatore competente, dava un senso di anacronismo a ciò che veniva pronunciato cantando. Nel contempo, accadeva che chi assistesse più allo spettacolo di Michieletto che all’opera di Verdi, anelasse ad un linguaggio più moderno, più attinente, più spedito.

Ergo? Ergo questi esperimenti falliscono, purtroppo, e così i due spettacoli si ostacolavano e danneggiavano a vicenda. Probabilmente il Michieletto ha agito a ragion veduta: a momenti, per dar gusto al proprio spettatore univoco, ha osato provare a porre Verdi in secondo piano. Invece, per chi, come chi scrive, fosse capace di seguire i due spettacoli contemporaneamente, ecco ciò di cui forse il Michieletto non si è neanche accorto: che a momenti fosse lo splendore della musica verdiana ad annientare il suo spettacolo e trasportare l’ascoltatore in una sorta di limbo, in cui la musica sembrava divenisse inno e preghiera. Grazie al Direttore Rustioni, è stata un’esperienza che ha salvato l’Opera.

Solo così chi scrive riesce a spiegare e comunicare le proprie sensazioni.

Il trionfo di pubblico che ha accolto l’Opera non è stato certamente merito del regista, ma di Verdi e dei suoi eccezionali interpreti. Pertanto, in base a ciò che sopra si è scritto, ci si aspetta, possibilmente a breve, un gradevole film del regista cinematografico Damiano Michieletto, in cui la colonna sonora magari sia “ispirata” all‘Aida di Giuseppe Verdi e che narri, con linguaggio moderno e fruibile che col libretto del Ghislanzoni non abbia nulla a che vedere, le sventure di una guerra senza luogo e senza nome e le vicende private dei personaggi che la vivono e che non possono rispondere ai nomi né di Aida, né di Radames, né di nessun altro dell’Opera. Oppure sì, perché no? Chi lo vieta? Un’altra Aida, omonima. Quella di Michieletto, però. Ma non al Teatro d’Opera, né come è stata proposta a Monaco di Baviera.

Natalia Di Bartolo ©

Foto di W. Hösl, Bayerische Staatsoper