LUCIA DI LAMMERMOOR alla Scala di Milano – Recensione

Di Natalia Di Bartolo – Lucia di Lammermoor, sogno donizettiano, croce e delizia per ogni soprano, capolavoro dal capolavoro di Walter Scott; insomma: una reliquia. E come tali le reliquie vanno trattate.


Al Teatro alla Scala di Milano, il 14 aprile 2023, il capolavoro di Gaetano Donizetti è andato in scena tra l’attesa di tutti, rimandato com’era stato per la pandemia. Tutti, dunque, col fiato sospeso ad ascoltare e guardare la messa in scena della prima versione, quella del 1835, scelta dal Maestro Concertatore e Direttore d’Orchestra Riccardo Chailly.

Il Maestro Chailly non ha compiuto una scelta facile, nel senso che molti melomani disinformati si sono visti orbati, nella scena della pazzia, della cosiddetta “cadenza col flauto”, così come ci viene tramandata, dal capriccio geniale del soprano australiano Nellie Melba che nel 1889, al Palais Garnier, interpretò la “sua versione” della scena donizettiana, dopo dieci giorni di prove per metterla a punto, ottenendo un successo strepitoso: la sua versione, già nel 1893, era ormai “canonizzata”. Con la Melba, Lucia passa dalla folle par amour del primo Ottocento all’isterica di fine secolo, sull’impronta degli scritti sull’isteria che proprio in quel periodo stavano proliferando.

Ma, tralasciando di approfondire l’interessante argomento psichiatrico, che potenzialmente influenza l’esecuzione sia musicale che scenica, si torni alla versione eseguita sotto la direzione del M° Chailly, con un’Orchestra del Teatro alla Scala a dir poco strepitosa, che lo ha seguito e assecondato con eleganza e misura.

La scelta agogica di Chailly è stata quella dell’incalzare dei tempi. Non tanto alterandone la durata, quanto esaltandone la valenza romantica e dunque non più fin de siècle alla Melba, ma proprio secondo i canoni coevi alla scrittura, cogliendo il suddetto dato psicologico, ma forse esaltandone più il lirismo che l’eroismo o la tragedia. La direzione, dunque, è stata impeccabile e, ovviamente, la bacchetta del Direttore Chailly non si può che lodare: cesello nelle dinamiche, sostegno al Coro, che ha nell’Opera una importante valenza, sostegno agli interpreti, grande coesione, come accennato, in orchestra.

E qui, dunque, è il momento di approdare alla scena, con un cast che ha fatto rumore nell’attesa dell’ascolto: l’attesa di ascoltare Lisette Oropesa nei panni di Lucia e forse, soprattutto, Juan Diego Flórez nella parte di Edgardo, al di fuor del suo cliché rossiniano o comunque generalmente scevro dal “tragico romantico”.

Lisette Oropesa ha dato il massimo, sia vocalmente che scenicamente, ma non per questo si è dimostrata una Lucia pienamente credibile. Musicalmente assolutamente corretta ed attenta allo spasimo a fiati e pause, alle modifiche di cadenze e di libretto, all’accompagnamento con la glassarmonica, il soprano statunitense non gode però di una particolare capacità espressiva d’immedesimazione. Il senso profondamente tragico del personaggio è andato disperso, nonostante gli sforzi anche recitativi della protagonista, proprio per la natura della sua voce, che è anche apparsa assottigliarsi rispetto ai suoi parametri, e del suo carattere poco “infiammabile”. Non la aiutava neanche la scelta del direttore che la riportava dall’isteria alla follie par amour, né tanto meno la valorizzavano acconciatura e costumi anni ’40 (si tornerà sull’argomento).

Di contrasto, al suo fianco Juan Diego Flórez, Edgardo, come sempre, invece, tutto cuore e amore, ha dispiegato una voce corposa, sorretta da un afflato romantico “nuovo” per lui, che gli si addice e che forse si mostrava come una specie di “riscatto” rispetto all’età che avanza ed alla vocalità che cambia. Ma cambia senza danni, nonostante qualcuno voglia trovare il solito pelo nell’uovo e decretarne qualche defaillance; tanto che, nonostante anch’egli non fosse aiutato dai costumi e men che meno dal regista, ha cercato di esplorare il lato romantico e tragico del personaggio, rendendolo forse il più credibile in scena o, comunque, il più immedesimato e, vocalmente, decisamente il migliore.

Sanza infamia e sanza lodo, il baritono Boris Pinkhasovich ha sostenuto con professionalità il ruolo del fratello Enrico, dotato di una voce che non ha nulla di particolarmente interessante né gradevole, mantenendo anche una cura spasmodica, forse eccessiva, della copertura del suono a favore della proiezione. Dato a suo favore, comunque, è stata l’interpretazione contenuta, che non tracimava nella crudeltà del fratello carnefice, così come spesso accade.

Il nostro Michele Pertusi, nei panni di Raimondo, aduso a tutti i ruoli da basso che la ormai (ahimé) vecchia generazione di grandi bassi (a cui anch’egli, in fondo, appartiene) appena usciti dalle scene non pratica più, per qualità vocali e per esperienza, ovviamente, ha riscosso il meritato successo.

Gradevoli e molto corretti i comprimari: Leonardo Cortellazzi, Arturo; Valentina Pluzhnikova, Alisa e Giorgio Misseri, Normanno. Del Coro, diretto da Alberto Malazzi, si è già detto bene.

E qui si ritorna al Flórez: veniva voglia di ascoltarlo ad occhi chiusi, perché, non si sa per quale motivo, sembra che i costumisti lo vestano per qualsiasi ruolo sempre allo stesso modo: col cappottino scuro con le spalle strizzate e la martingala; e, al massimo, cambiano camicia o maglietta sotto l’indumento principale. Una sorta d’icona sgradevole, non tanto per colpa del povero Flórez, quanto, anche in questo caso, per quella della scarsa fantasia di Yannis Kokkos, a cui erano dovute pure regia e scene.

Il Kokkos ha istituito una specie di statica postura per tutti gli interpreti e soprattutto per le masse. Ha lasciato Flórez, per primo, a se stesso ed il tenore, che non possiede particolari doti espressive nella recitazione, ha fatto davvero miracoli. La Oropesa, a maggior ragione, per la sua natura, avrebbe avuto bisogno di maggiore guida a favore di credibilità, anch’ella coi vestitini anni ’40, scelti dal regista quale periodo di ambientazione, che vestivano tutti e che si fondevano nella loro foggia fuori luogo ad una scenografia bieca, cimiteriale aliena, altrettanto fuori luogo. Fucili e pistole alla mano, gli interpreti: banditi dalla scena spade e pugnali…Ma poi Edgardo, in un improvviso afflato registico di aderenza al libretto, è costretto a suicidarsi non con un pugnale, ma con uno squallido coltello a serramanico, che tiene nella tasca del cappottino e che deve prima aprire: trovata indegna perfino della più becera regia di Cavalleria Rusticana.

Il tutto partorito dalla mente del regista, che, a suo dire, svecchiando la questione “storica” dell’Opera (che invece è importante, anche ai fini registici: si parla di storia scozzese con molta chiarezza nel libretto!) ha inteso sottolineare l’ormai inflazionata, sia pur motivata, esaltazione della condanna della “violenza sulle donne”. Niente di nuovo sotto il sole, anzi, sotto il lucido che specchiava nelle scene adorne di enormi statue simboliche e nel pavimento, aprendosi all’ immancabile scalinata nello sfondo, con le luci di Vinicio Cheli, in una atmosfera grigia, cupa ed irreale.

Grande successo di pubblico, come prevedibile, con espressione, maggioritaria e senza veli, di dissenso per la regia, a buon diritto.

Natalia Di Bartolo ©

Foto Brescia e Amisano