I VESPRI SICILIANI alla Scala di Milano – Recensione

Di Natalia Di Bartolo. Il libretto si riferisce ad un preciso evento storico che è  fondamentale per trovare “la chiave di lettura” dell’intera opera.


Questa nota che riguarda la regia e che precede la recensione musicale del capolavoro verdiano andato in scena, nella versione in italiano, al Teatro alla Scala il 14 febbraio 2023, scaturisce immediata e spontanea da chi scrive, che è solita, invece, citare la regia con annessi e connessi alla fine dell’articolo. Questa volta no, nonostante sia abbastanza “elastica” alle trasposizioni registiche, purchè intelligenti, coerenti e accettabili.

In questo caso il libretto (che subì perfino la tortura della censura appena arrivò in Italia dalla Francia) si riferisce ad un preciso evento storico che non è meno importante o trascurabile perché avvenuto nel lontano 1282 , ma fondamentale per trovare “la chiave di lettura” dell’intera opera, ambientata in Sicilia, a Palermo, per la precisione.

Il regista Hugo de Ana, autore anche di scene e costumi dello spettacolo in questione, pur di metterci dentro la guerra, evocata per il pubblico come la viviamo oggi, ha scavalcato l’evento storico Vespri e messo disinvoltamente una croce sopra a secoli e secoli di storia che hanno visto la Sicilia vessata e sconvolta dalle tirannie più variegate. Un po’ esagerata, però, la tirannia dei nostri cugini francesi, in questa produzione: neanche fossero i nazisti più spietati: troppe armi, fucilazioni, torture: il troppo stroppia. Ma il punto non è neanche questo: il punto è che probabilmente il de Ana non conosce la Sicilia né tanto meno i siciliani.

Costoro non sono mai stati spontaneamente “italiani”, lo sono diventati e lo sono con orgoglio, ma sono sempre stati e sono, per prima cosa, fieramente Siciliani. Ecco quindi che “spostare” i loro secoli come fossero le pedine degli scacchi piazzati sul proscenio e mettere invece in risalto, a Palermo, guerra moderna e cosiddette “marocchinate”, ovvero, le violenze perpetrate contro le donne dalle truppe alleate dopo lo sbarco in Sicilia (che fanno audience!) intorno agli anni ’40 del secolo scorso, dimostra una assoluta incultura antropologica e storica.

Nel panorama della Penisola, la Sicilia è sempre stata un’entità geografica, politica, culturale, linguistica a sé stante: terra tormentata,  terra fiera, nella quale hanno sempre serpeggiato velleità indipendentiste.

Si ritiene allora che ci sia una bella differenza nel “trasporre” (ma è proprio indispensabile?) la vicenda in avanti, ma in questo caso occorrerebbe farlo non oltre il XIX secolo (così come è stato già fatto), quando l’isola era ancora terra di Borboni e altre grandi nobiltà, di latifondi, di sfruttamento della popolazione e di violenze ancora più violente di quelle che fanno tanta audience oggi, con un “palleggio” di questa terra meravigliosa e sventurata tra mille contendenti regali, politici, faziosi, di mille nazionalità, regno Sabaudo compreso, che poi la rese “italiana”. Si guardi la storia togliendo al Risorgimento quell’aura di romanticismo che ai nostri nonni piaceva tanto. Qui, invece, siamo balzati direttamente nel 1944, ma, al primo atto, con un retroterra del genere, la bandiera tricolore italiana di oggi appariva inconcepibile in mano ad Elena, che, a rigore storico-filologico, avrebbe dovuto avere quella gialla e rossa con la Trinacria al centro, che nacque proprio in quei frangenti. Niente bandiera siciliana? Se ne usi una d’altro colore! Tutto ciò balzava all’occhio in maniera molto fastidiosa, visto che qualche drappo rosso sventolava in mano ai popolani.

Il tutto, anche condito da dispendiose strutture degne di un film, da orpelli scenici in cui le bare con le maniglie di metallo a passeggio avanti e indietro o usate come scranni erano inflazionate, è stato certamente attuato per una velleità di “svecchiamento” (“Se non svecchi, il teatro resta vuoto soprattutto di giovani…!”) che però ha deformato caratteri, personalità, eventi, non solo nei personaggi protagonisti, ma nell’intero popolo siciliano rappresentato, che, impersonato da un copioso numero di coristi e comparse, ha affollato e animato anche troppo il palcoscenico. Oltretutto con trovate e pantomime come quella della Madonna Addolorata o del Crocifisso o, ancora, dell’albero nell’ultimo atto (non si capiva fosse ulivo, mandorlo, castagno…) assolutamente inflazionate riguardo alla “sicilianità” più becera e scontata, insieme all’ingombrante presenza del grande cannone che spara e del carro armato, moderni spauracchi che avrebbero dovuto destare “maraviglia” nello spettatore.

I costumi, sempre del de Hana erano lucidi, acciaiati da infiniti spruzzi di bombolette spray quelli militari; coppole in testa agli uomini e kilometri di tessuto rigorosamente nero che vestivano le donne, per il popolo. Una frase di ribellione sgorga allora qui spontanea da chi scrive: la coppola non fa il siciliano! Si studi il de Ana un po’ di storia ed un “tanticchia” di antropologia culturale. Poi, magari, si riparla di ambientazione a Palermo.

Volendo proseguire nel presente florilegio, “dentro” questo sgradevole, oscuro (luci di Vinicio Cheli) , inconsulto, fuori tempo e luogo, etc. etc. “contenitore scenico” si muovevano una gran folla di confusionari coristi, a volte anche musicalmente fuori tempo, alcuni malcapitati comprimari e quattro figurine che sembravano ritagliate nella carta da un bambino per il teatrino dei giochi: i protagonisti, senza alcuno spessore né vocale, né scenico.

Priva di espressione sul viso, in posizione costante sull’attenti, Marina Rebeka – Elena ha risparmiato la voce flautando per tutto il tempo fino al rondò, che conosceva bene per averlo studiato ed eseguito in concerto e con il quale si sentiva “a casa” (parole sue); il resto dell’opera? Contorno…

Il volenteroso Matteo Lippi – Arrigo, che ha sostituito Piero Pretti indisposto, avrebbe tratto sicuro giovamento dal cantare raddrizzando le vertebre cervicali, alzando la testa e utilizzando l’intera maschera, non solo la mandibola ed il labbro inferiore: si canta aprendo tutta la bocca e i problemi di copertura del suono si risolvono diversamente, migliorando oltretutto la proiezione.

Luca Micheletti – Guido di Monforte nascondeva  invano sotto il trucco e l’arte scenica un’età ancora bisognosa di maturazione per un baritono che si voglia definire “verdiano”: voce che, almeno al momento, è troppo “leggera” per il ruolo e che, per la prima volta in vita sua, ha fatto ascoltare a chi scrive un baritono che va in falsetto nei piano.

L’orientale Simon Lim – Giovanni da Procida, anch’egli voce ben lontana dal basso verdiano che occorrerebbe per la parte, cantava “O tu Palermo, terra adorata” con gli occhiali da sole,  seduto su una bara all’ombra del carro armato e ovunque sembrava trovarsi tranne che a Palermo.

Del Coro si è già accennato e si preferisce glissare; dei comprimari, tutti bravi, in verità, una volta tanto non si può dire che bene.

In buca il Maestro Fabio Luisi aveva il suo bel da fare con un tomo verdiano come i Vespri e un cast del genere, fin dalla sinfonia. Andamento agogico un po’ impastato a momenti, dinamiche tratte in salvo per  miracolo, spasmodico sostegno agli interpreti.

Pubblico plaudente ma non del tutto ed in parte perplesso; chi scrive, invece, costantemente col pensiero all’edizione, con le danze, della Stagione 1989-’90 (l’ultima alla Scala fino ad oggi) da affrettarsi ad andare a rivedere e riascoltare…

Natalia Di Bartolo ©

Foto Brescia e Amisano