TURANDOT a Catania – Recensione

di Natalia Di Bartolo – Sul podio il M° Eckerard Stier e Daniela Schillaci protagonista, al Teatro Massimo “Bellini” una Turandot tradizionale, regia di Alfonso Signorini.


Chi si rechi a vedere uno spettacolo d’Opera, spesso non pensa, o dà per scontato il fatto che i cantanti ed il coro debbano esibirsi con “l’orchestra davanti”. E’ sempre stata un caratteristica “croce e delizia” per direttori e pubblico.

Il 12 gennaio 2024, nella serata d’inaugurazione della Stagione Lirica dell’anno in corso al Teatro Massimo “Bellini” di Catania, con l’attesissima Turandot di Giacomo Puccini, il discorso di cui sopra si è presentato in tutta la sua problematica pregnanza.

Sul podio il Maestro Concertatore e Direttore d’orchestra tedesco Eckerard Stier. Il M° Stier ha scelto e si è trovata davanti un’orchestra rimpolpata, così come la partitura pucciniana richiede. Il golfo mistico era strapieno e, ovviamente, c’era da governare la nave con polso fermo e senza tentennamenti.

Il Maestro Stier si è dimostrato veramente eroico di fronte ad una compagine orchestrale da amalgamare e tenere insieme senza scosse, ma le dinamiche ne hanno risentito. Se l’andamento agogico è stato un po’ “appesantito”, ma comunque corretto e scorrevole, le dinamiche si sono appiattite, a favore di un “tutto forte” che non è né nelle corde del Maestro, che possiede bacchetta raffinata e di ascendenza più sinfonica che operistica, né nelle necessità di sfumature dell’opera. Inoltre, è comunque naturale che qualche particolare sia balzato all’orecchio più di altri, come le viole sotto gli enigmi, che si sono levate ad un volume e ad una qualità di esecuzione che non era all’altezza del ruolo richiesto. Quindi la muraglia cinese (in tema con l’opera) che spesso si è frapposta tra cantanti e pubblico, rischiando di coprire addirittura qualche assieme, avrebbe dovuto essere regimentata da un polso assai robusto. La delicatezza del Maestro Stier, deliziosa persona, oltre che impeccabile direttore di orchestre soprattutto sinfoniche, ha comunque “tenuto”, nella piena consapevolezza della situazione, ed ha dato il meglio possibile che si potesse trarre da una compagine tracimante di numero e sonorità.

La scelta, inoltre, del finale di Luciano Berio, ha dato una marcia in più alle “corde” del Maestro, con la sua parte sinfonica che contiene anche spunti wagneriani. Nel finale di Berio gli appunti di Puccini spiccano “nudi e crudi” come perle ricamate su un tessuto che sembra non appartenere all’Opera, per stile e sonorità. Il finale di Alfano, coevo all’Opera, rimane sempre la soluzione più adatta, a parere di chi scrive. Tuttavia il finale di Berio è bellissimo ed è giusto tirarlo fuori ogni tanto. Ha inoltre una qualità che quello di Alfano non ha: non è un vero “finale”.

Come accade in certi film, in cui pare che ogni problema negativo si sia risolto, ma in cui l’ultimo fotogramma ripropone il plausibile ritorno dello stesso, così accade nel finale di Berio: Turandot sembra non pensare veramente quello che dice ed il lieto fine, così spiccato in Alfano e che Puccini aveva dubitato a lungo su come risolvere “per rendere simpatica nel finale una principessa antipatica” (forse non solo la morte dell’autore ha reso Turandot incompiuta) in Berio è più sfumato, resta come sospeso: Turandot si è davvero convinta che “il suo nome è Amor”? L’autore di questo finale egli stesso non ne è palesemente convinto e volutamente non convince: è eventualmente la regia che “spinge” alla concretezza di tale risoluzione, lì dove la morte di Liù rimane ad aleggiare pesantemente fino all’ultima nota, connotando una gioia che effettivamente non è espressa dal Berio. Utilizzando questo finale, Turandot continua a non aver un finale. E comunque, chi scrive appartiene al folto gruppo di assertori che l’esecuzione di Turandot debba interrompersi alla morte di Liù.

In scena, un cast di tutto rispetto ha profuso il meglio di sé. 

Turandot, Daniela Schillaci, fresca Violetta sempre al Bellini, ha dato prova di una duttilità soprendente, ma dimostrazione palese che questo è il suo repertorio attuale, questa la sua vocalità di oggi.

Una Turandot impeccabile, la cui perfetta linea di canto non ha vacillato neanche un attimo, una “lama” tagliente che era l’unica a “penetrare” la barriera dell’orchestra senza alcun problema. Una Turandot “dura”, perfettamente calata nel ruolo, favorita anche da un’ottima prestazione d’arte scenica. L’improba partitura pucciniana di questo personaggio, che si attiene agli stilemi primi ‘900 del canto “sopra le righe” è sempre ad alto rischio di un “gridato” poco piacevole o di un inesorabile calo di tono. Daniela Schillaci ha superato qualsiasi ostacolo con una disinvoltura che la vedeva decisamente a proprio agio in questa tessitura. Il ruolo di Turandot per lei è “comodo” e si sente: una volta raggiunto l’apice, ci resta senza alcun problema, riuscendo anche a trovare dei bellissimi gravi, quando occorrono. Chapeau.

Colui che invece ha sofferto le suddette barriere orchestrali è stato l’ottimo Angelo Villari, Calaf. Eppure ha una voce che si è fatta sentire al momento opportuno, morbida e rotonda, uscendo vittoriosa anche nell’attesissimo e molto applaudito “Nessun dorma”.

La Liù di Elisa Balbo era aggraziata, ma un po’ acerba vocalmente, soprattutto nei filati, che erano un po’ “spinti”, come interamente un po’ “spinta” era tutta la sua prestazione, pur dimostrando un bel colore e ottime prospettive in divenire. Che comunque, correttamente o meno, i filati siano stati eseguiti, cosa che ormai raramente accade, è un punto a suo favore.

Ping, Pang e Pong, rispettivamente Vincenzo Taormina, Saverio Pugliese e Blagoj Nakoski, erano perfettamente in parte, pur con qualche sbavatura d’intesa al secondo atto.

Corretto il Timur di George Andguladze, così come l’Altoum di Mario Bolognesi e il Mandarino di Tiziano Rosati.

Ben rodato il Coro diretto da Luigi Petrozziello, pur se qualche corista della compagine femminile avrebbe dovuto modulare con maggiore delicatezza e a favore dell’amalgama. Grazioso il “Coro di voci bianche Interscolastico Vincenzo Bellini“, diretto da Daniela Giambra.

Una volta tanto, oggi come oggi, la regia di Alfonso Signorini ha portato rispetto a tutto l’insieme, inserita nell’allestimento del Festival Pucciniano di Torre del Lago e Opera Nazionale Georgiana di Tblisi: alla fiaba, ai personaggi, all’ambientazione cinese e fantasiosa con le scene di Carla Tolomeo, riprese da Leila Fteita; con i bellissimi costumi di Fausto Puglisi, sempre ripresi da Leila Fteita, che ad occhio attento avevano raffinati richiami decó; curando in particolare le luci di Antonio Alario, in maniera da creare le giuste atmosfere al momento giusto.

Un sospiro di sollievo visivo per chi ormai sia aduso, ma mai “assuefatto” alle messe in scena folli che stanno in giro sui palcoscenici, in questo periodo storico di voli pindarici quasi sempre fuori luogo.

Gran successo di pubblico in sold out, ovviamente, desideroso di musica, ma soprattutto di tradizione, con lunghi applausi finali a tutti gli interpreti.

Natalia Di Bartolo ©

Foto Giacomo Orlando ©