Par Natalia Di Bartolo – Dan Ettinger sul podio al Teatro San Carlo, una produzione musicale notevole, una regia da dimenticare.
Esistono occasioni in cui lo spettatore presente in teatro anche in imprescindibile veste di critico dubiti se scrivere o meno la recensione di uno spettacolo.
Eppure è stato uno spettacolo di richiamo, l’inaugurazione della nuova Stagione Lirica del teatro di San Carlo di Napoli, il 9 dicembre 2023.
Sur le podium Maestro concertatore e Direttore d’orchestra Dan Ettinger, che ha dato alla partitura pucciniana una lettura agogica di vibrante modernità e concisione, pur se ogni tanto le dinamiche si appiattivano e i tempi rallentavano.
Sondra Radvanovsky sempre gran Turandot, ha dispiegato il volume e la portata delle proprie capacità di proiezione “a lama di rasoio”, che non lascia scampo alle difficoltà. Dotata di uno strumento assai generoso, è stata a volte un po’ imprecisa nella dizione, dichiaratamente anglosassone. Ma non si può che dirne bene.
Yusif Eyvazov a occupé le rôle de Calaf con le capacità e la generosità vocale che gli conosciamo, al di là di qualsiasi giudizio sulla qualità sonora della sua potente vocalità, che riesce a sormontare ostacoli improbi e a raggiungere vette di tutto rilievo.
Rosa Feola, Liù, è stata precisa ed attenta, ma la sua vocalità non è parsa particolarmente adatta al ruolo, che si preferisce più “scuro”, e comunque più “dolce”.
Pas particulièrement enceinte Timur par Alexander Tsymbalyuk; Ben amalgamati Ping-Pang et Pong par Roberto de Candia, Gregory Bonfatti e Francesco Pittari; ottimo il Chœur San Carlo, réalisé par Stefania Rinaldi pour les voix aiguës et de Piero Monti per le maestranze del teatro.
Une note spéciale à tous’Empereur Altoum de Nicola Martinucci, che ha ridestato negli appassionati ricordi di antiche glorie ormai passate di un Calaf che ha fatto epoca.
Capolavoro incompiuto, nel complesso, la Turandot, volente o nolente lo stesso Puccini, ma di una divina perfezione, fino alla morte di Liu. Lì dove, a parere di chi scrive, i direttori d’orchestra, sempre e comunque, si dovrebbero fermare. Non c’è finale che tenga, né già scritto né da osare di voler scrivere ancora oggi.
Dunque? Perché essere in dubbio se recensire o meno una produzione di tale rilevanza musicale? Perché non è giusto porre in alcun modo in rilievo personaggi come il regista Vasily Barkhatov ed il suo staff ( scene di Zinovy Margolin, costumi di Galya Solodovnikova, luci di Alexander Sivaev, coreografie di Dina Khuseyn ) con la sua aberrante ideazione e distorsione della trama e dell’ubicazione dell’Opera pucciniana, il cui primo atto, per chi scrive, è da sempre la massima espressione del genio del compositore lucchese: il suo capolavoro.
Tutto ciò è Arte e l’Arte non andrebbe contaminata da trovate registiche pseudo intellettuali e visivamente sgradevoli; non andrebbe modificata la trama, come è stato fatto dal regista; non andrebbe toccato nulla di ciò che è talmente perfetto da non richiedere alcuna modifica, compreso il finale che non c’è.
Non tutte le regie “innovative” sono da condannare, non tutto ciò che vorrebbe “svecchiare” l’Opera è da rigettare, anzi; ma non si passi mai il limite del buon gusto, come è accaduto a Napoli, collocando Nicola Martinucci, l’imperatore Altoum, in una teca di vetro, come fosse la reliquia mummificata di un santo in qualche chiesa napoletana o d’oltralpe. E questo è solo un esempio. Di tutto il resto, appositamente, non s’intende scrivere, né tantomeno compiere voli pindarici per sviscerare cervellotiche letture che avvicinino a questo o a quello “l’ispirazione” del cosiddetto “regista”. Dunque, restando fedeli al primo input che è stato quello di non scrivere, vogliano essere queste note una semplice presa di coscienza di quanto in basso si possa giungere il nome dell’”innovazione”.
Non solo: lo sdoppiare, addirittura triplicare la trama, inserendo la presenza di sale operatorie e di protagonisti tra la vita e la morte, può destare nello spettatore stati d’animo avulsi da ciò che è andato a vedere a teatro e risvegliare, nelle coscienze di chi l’ha vissuto, quel non essere “né di qua né di là”, che è una delle esperienze più sconvolgenti dalle quali si possa tornare indietro. Cosa c’entra tutto questo con Turandot? Perché lo spettatore viene obbligato a sentirsi seduto di fronte ad un maldestro strizzacervelli che si permetta di risvegliare perfino esperienze così dolorosamente sopite e tanto traumatiche?
Nessuno ha il diritto, a teatro, di turbare il pubblico, in alcun modo. Sia chiaro a chi, per sentirsi all’avanguardia, affida capolavori a certi biechi personaggi che li distruggono e che vanno assolutamenti messi a tacere e immediatamente dimenticati.
Parlarne e riparlarne, non fa altro che rinfocolare il loro ego ipertrofico e il nulla che impera nella loro in-cultura, nel loro gusto e nella loro coscienza, accendendo riflettori sul trash più assoluto. Adesso si arriva a leggere “La Turandot di Barkhatov!? E’ comodo il giochetto del “Che se ne parli bene o se ne parli male, purchè se ne parli! NO! Assolutamente e definitvamente bisogna stroncare; e le voci che gridano nel deserto, col tempo, rimandano sempre la propria eco, non gridano mai invano.
Et’ la première fois comme ça sentiment de rébellion prevale in maniera così veemente e inarrestabile sulla presente penna. Dunque, è la prima volta che chi scrive tace, esprimendo soltanto il proprio profondo, sentito e largamente condiviso dissenso sulla produzione registica napoletana.
Natalia Dantas ©
Foto Luciano Romano | Teatro di San Carlo ©