VEZZI AND MALVEZZI – The whole truth about the death of "Julius Caesar"

Natalia Di Bartolo, in a’ careful examination of the sources of the “Julius Caesar” di Shakespeare, arricchisce la serie umoristico/satirica di Vezzi e Malvezzi con un nuovo personaggio: la mitica Madama Gorgonide, propugnatrice dell’incultura.


Può capitare che la vera cultura solletichi tale Madama Gorgonide, mitica e dissenziente frequentatrice immancabile di luoghi in cui ci si pasca di cotanto cibo eletto, fino a farla uscire allo scoperto, proprio dove si pensi che non sia: quel perfetto piatto gourmet, colmo di saporite nozioni, la disgusta proprio e la si vede in giro per i luoghi deputati alla diffusione della scienza e dell’arte fare la ronda, per sussurrare all’orecchio a questo e a quello le proprie immancabili deprecazioni su quest’altro e su quell’altro ancora, perché proprio non ne può più di tanta conoscenza e cerca di fare proseliti, obnubilandoli: questo incarico le giunse, prima della notte dei tempi, in un oscuro ricetto dell’Olimpo, da zia Medusa la Gorgone, affinché diseducasse la gente dal bello e dal giusto, e perché desse l’avvio alla stirpe immortale degli studiosi e dei critici ignoranti e confondesse e traviasse quelli colti.

Nei millenni, la detentrice di questo alto compito, che purtroppo dall’Olimpico Consesso non venne mai riconosciuto ufficialmente, con grave smacco delle tre zie Gorgoni e il disconoscimento da parte dei Cultori della Mitologia greca ortodossa, si è comunque, anche per ripicca, impegnata allo stremo nella propria missione: confondere le idee al prossimo, fino a convincersi ella stessa di essere nel giusto, è sempre stata l’unica sua occupazione e l’unica cosa che sappia fare. Mai che si sia impegnata a lavare i panni sporchi, se non quelli altrui, o a confezionare torte di mele o ad imparare a lavorare all’uncinetto.

And’ proprio nel momento del solletico della vera cultura, che costei, sconosciuta ai più e per questo ancora più pericolosa, si palesa, addirittura paludata con tanto di toga e di tòcco, per intervenire con ostracismo e albagia a confutare perfino dati inconfutabili; oppure s’acciambella sorniona, acquattata nell’ombra insieme a tutti i suoi innumerevoli serpentelli velenosi che le infoltiscono le chiome al pari di zia Medusa, ma che lasciano il suo cuoio capelluto quando si possano permettere di annidarsi dove possibile e poi sgusciare fuori in autonomia; e, fingendo disinteresse, resta pronta a mordere o ordinare di mordere l’orecchio prescelto quando meno l’interessato se lo aspetti. Ci sono luoghi, poi, dove aleggia sempre, venefica, nell’aria, palesandosi con la presunzione, che le è tipico attributo inscindibile.

Uno dei luoghi deputati migliori per una delle sue apparizioni in pompa magna è il Teatro classico, lì dove le tavole del palcoscenico vengono montate con tanta fatica e calcate con tanta passione e dove la cultura è di casa.

Giusto oggi va in scena “Giulio Cesare” di Shakespeare: da non mancare! Ghiottissimo l’argomento, discutibili e discussi i personaggi; avvenimenti, tradimenti e uccisioni accaduti davvero. Figuriamoci trasferiti in un’opera teatrale.

Quando si metta in scena un testo di William Shakespeare, cosa c’è di più ghiotto per Madama che affilare i canini e addentare una polpa così gustosa, al solletico immancabile di tanta conoscenza? Soprattutto quando ci sia di mezzo la Storia e sia una storia antica e nebulosa, perché tramandata in tante versioni, in momenti successivi, in occasioni e lingue diverse, in situazioni che facciano facilmente germogliare velenosi, gustosi contrasti trasposti sul palcoscenico.

Madama Gorgonide si fa trovare già lì in teatro fin dall’apertura, abbigliata immancabilmente con toga e tòcco delle grandi occasioni, vigile ed instancabile propugnatrice dell’incultura, pronta a diseducare i colti ed a confondere gli incolti.

Così va a finire che, a spettacolo che volge alla conclusione, sorbitasi bofonchiando tutta la tragedia, ha brontolato all’orecchio del vicino di destra e di quello di sinistra; nell’intervallo ha fatto il giro del foyer per seminare zizzania; non vede l’ora che lo spettacolo sia finito per intervenire con gli ultimi appassionati avviati verso l’uscita, per imbrogliare ancor più le carte e sfogare tutto il proprio livore contro chi si abbevera alle “fonti” delle nozioni veritiere. La Madama suddetta, ovviamente rifugge tali limpide sorgenti del sapere, su cui splende il sole della chiarezza: ama le sorgenti fangose, in luoghi oscuri e nebulosi, quelli in cui possa tentare il doppio gioco e dove si possa permettere anche di essere circondata dai suoi angui seguaci, che si annidano fin sotto le poltrone, facendo però sempre capo alla sua testa, di cui nasconde abilmente la calvizie momentanea sotto il tòcco.

Dunque eccola, alla fine dello spettacolo ed a teatro ormai pressoché vuoto, guardarsi intorno soddisfatta, ma notare che una spettatrice è rimasta seduta su una poltrona di prima fila e non sembra avere intenzione di andare via.

“Non sarà per caso un critico che scriva una recensione positiva dello spettacolo o intervisti il primo attore? Non sia mai!pensa infuriata – Come ha fatto a sfuggirmi finora? Ho passato il pubblico al setaccio! Questa è accanita proprio e le va fatto un trattamento speciale!” Le avanza allora contro, in tutta la sua superbia ed arroganza, con le mani in fianco e le svetta di fronte, restando in piedi, proprio a dieci centimetri dal naso, rosicando come non mai. Ma la signora, elegante e distinta, non si scompone, resta seduta e la lascia parlare.

Dopo avere contestato all’imperturbabile interlocutrice, con sommo disgusto, dizione, espressione e postura degli attori, regia, scene, costumi, luci, musica e tutto ciò che si poteva falcidiare dell’appena concluso spettacolo, giunge al testo di Shakespeare. Ma lì comincia a vacillare. La sua intrinseca nullità si deve corazzare di presunzione al quadrato; e gonfia il petto come una ranocchia per darsi importanza. La gentile signora che si è attardata a teatro la guarda di sottecchi, con un vago sorrisetto sulle labbra

“Che spettacolo borioso e infarcito di sciocchezze e anacronismi nel testo!- prosegue Gorgonide, addentrandosi ora su terreni scoscesi e, per lei, altamente pericolosi.Dunque Cesare avrebbe avuto “il mal caduco!?…”

“Sì, forse. In realtà, invece, pare che soffrisse di piccoli ictus ripetuti, hanno rilevato moderni studiosi.”risponde con grande naturalezza e semplicità la signora, che non batte ciglio di fronte a tanta arroganza.

“Perché? Ancora ci studiano? Echiaro che fosse epilettico, ma nel 44 a.C. Le manifestazioni che il male provoca non erano riconosciute come malattia e quello di Cesare, fino al XVII secolo, veniva denominato “mal divino”, perché considerato una manifestazione attribuita agli dei. Termine inappropriato “mal caduco”, in questo testo. Shakespeare non capiva nulla di medicina!

“Ma cara signoraL’epilessia era nota fin dai tempi più remoti e certo non era considerata un dono degli dei, ma un “male”, divino per quanto fosse. “Caduco” è una voce dal latino dotto cadùcus: ‘caduco, precario’, da càdere ‘cadere’. Ma già in latino, proprio perché voce dotta, il “caducus” prendeva una dimensione figurata, raccontando il fragile, il precario, ciò che sta per cadere e fin dal XIII secolo, questo significato viene adottato anche in traduzione dal latino. Il termine “mal caduco”, poi, usato per denominare la malattia ai tempi di Shakespeare, vuol dire in traduzione letterale, “che provoca cadute” ed era definito addirittura “mal comiziale”, perché provocava, ovviamente, l’interruzione di un comizio o comunque di un’apparizione pubblica. Non crede che il genio lo mettesse in bocca a Bruto proprio in un determinato momento, quello del rifiuto della corona di re da parte del dittatore, ed in riferimento a ciò che stava per accadere a Cesare, più che al male di cui soffriva? Faccia mente locale, dunque, e pensi alla finezza con cui il Bardo usava la terminologia nei propri testi: non era Cesare stesso, al pari del suo male, precario, effimero, e destinato a cadere? Lei riflette poco sull’etimologia delle parole, mia cara e soprattutto sulla finezza di un drammaturgo come Shakespeare: si eserciti!”

Madama Gorgonide, masticando amaro, insiste tra i denti: “Fuori tempo! Eun termine comunque fuori tempo!” ma sa benissimo di aver appreso ciò che mai avrebbe imparato nella sua incommensurabile presunzione; e che la sconosciuta signora ha ragione.

“E allora, lei che sa tutto – sbotta per tutta rispostami dica anche questa: Cesare parlò a Bruto, prima di morire, a quanto pareE cosa disse in latino?

“Shakespeare gli fece dire: “Et tu Brutee aggiunse: “Allora cadi Cesare!” (atto terzo, scena prima)”.

“No! Orrore! Questo è stato detto stasera sul palcoscenico, ma la frase latina è sbagliata!”

La signora sorride al pensiero dell’altrui laurea “honoris causa” e risponde: “Gentilissima amica, lei ha mai consultato un vocabolario latino un popiù “completo” del celebre volume dalla copertina rossa della scuola media dei tempi andati? Non mi pare. Perché se lo avesse fatto, avrebbe letto che tra gli innumerevoli significati di “et” c’è anchee persino. Dunque, cosa ci sarebbe di sbagliato in questa frase? Et (e persino) tu (tu) Brute (o Bruto). And’ un breve inciso, di un moribondo alla ventitreesima coltellataCosa doveva recitare? L’Eneide non era ancora stata scritta

“Ma veramente – immediata la replica acidaquesta dovrebbe essere la versione di Plutarco. E siccome Plutarco era greco, non conosceva bene il Latino e sbagliava.

“Plutarco? No, gentile signora, questo non è Plutarco! Lei ha letto il testo greco originale di Plutarco sulla morte di Cesare daLe vite parallele”? Alla biografia di un personaggio greco viene accostata, generalmente, quella di un romano; nel nostro caso, Giulio Cesare ad Alessandro Magno. Tutto in greco antico.”

“Un testo in greco di storia romana? Ma la smetta!”

“Sì, un testo in greco: Plutarco scrisse in greco anche della morte di Cesare. Lei sicuramente saprà tradurre il greco all’impronta, ma non si sforzi: ecco la traduzione:

Perciò anche Bruto gli inferse un unico colpo nell’inguine. E da parte di alcuni si dice che allora difendendosi dagli altri e spostandosi qua e là e gridando, quando vide Bruto che aveva sguainato la spada, tirò la toga sulla testa e si lasciò cadere, sia per caso, sia spinto da coloro che lo uccidevano, presso la base su cui è collocata la statua di Pompeo. ()”.

Come vede, Plutarco fa tacere Cesare morituro.”

“Allora la frase, giusta o sbagliata, sarà di Svetonio!”

“No, gentilissima, questa frase non è neanche di Svetonio. Lei avrà letto sicuramente su Google qualche versione per liceali, adattata dal testo latino di Svetonio. Non credo che sia andata al testo originale! “

“Come no? L’ho letto tutto, io! “Tu quoque Brute fili mi, cioè ‘Anche tu, Bruto, figlio mio!. Esclamazione estrema di un grande Romano morente, ovviamente in latino…”

“Non è vero: se lo avesse letto, avrebbe notato che Svetonio dice e non diceanzi, se ne lava le maniPosso?” e l’elegante signora sorride in cuor suo: il discorso si fa sempre più interessante

In the original text of the "Illustrious Men" – goes on – lo storiografo Svetonio, che scriveva 150 anni dopo, ma doveva saperne sempre più di noi a due millenni di distanza, precisa che Not enough technology were the last words of Caesar and – important element – le riporta non in latino ma in greco, nel suo testo tutto in latino (libro I, capitolo 82). Però, dato fondamentale, non si prende la responsabilità della certezza di queste parole del morente, perché fa una premessa. Traduco, ma cito anche in lingua originale, se lei ancora permetteMa sì che permette: con la cultura che la contraddistingue, chi più di lei?

“Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, coperta anche la parte inferiore del corpo.

Questa è fin qui la traduzione da Svetonio, il quale però soggiunge: etsi tradiderunt quidam Marco Bruto irruenti dixisse: kai su téknon.che tradotta suona:Sebbene si tramandasse che, nel vedere avventarsi Marco Bruto, dicesse: “You too son”. E glielo disse in greco.“Kieu teknon” si pronuncia esattamente così.-

“Morendo, Cesare parlava in greco? Ma non mi faccia ridere!”

“Rida pure, ma allora lei non sa che Cesare era perfettamente bilingue ed amava il greco, utilizzandolo sia nel parlato quotidiano e confidenziale, sia nei momenti di maggiore emozione. Dunque se disse qualcosa a Bruto prima di morire, lo disse in greco. Ma neanche Svetonio ammette con certezza, come vede. Però, per tornare al nostro Shakespeare, mi pare proprio che abbia tradotto alla lettera quello che Svetonio aveva sottilmente detto e non detto: l’esatta traduzione in latino diKai su” e aggiunse Brute (o Bruto).“Et tu, Brute?e allora cadi, Cesare!”

Madama Gorgonide rosicava visibilmente: “Non è possibile: ilTu quoque Brute, fili miUna frase di questa finezza sintattica, con il quoque giustamente posposto: degna di Cesare! Deve essere stata detta per forza!”

“Sì, certo: Il 14 luglio 1829 da Giovan Battista Niccolini, in una lezione all’Accademia della Crusca.

Perché mi guarda stranita? Le spiego meglio, cara, sento che le necessitano diversi chiarimenti…In summary, therefore, Shakespeare could not refer to either Plutarch or Suetonius, who either keep silent about the anecdote or give a "prudent" version of it: therefore it is easy that he had been the first to make Caesar speak on the stage and that over time he born a tradition that refers precisely to his Et tu Brute? taken from the beginning of the sentence referred to in Greek by Suetonius and probably used, after the original appearance on the stage, also by other playwrights, both before and after 1616, the year, alas, of his departure.

Indeed, in London, in 1641, at the High Court of Parliament “Mr. Smith of the Middle-Temple ”will insert in his speech: «Kai su teknon! disse Cesare al Senato; non era per la propria morte che si crucciava, bensì per il fatto che il proprio figlio alzasse la mano contro di lui per ucciderlo».

In Spagna, nel 1644, il celebre Francisco de Quevedo (1580-1645) scrisse “Vida de Marco Bruto” rifacendosi alla versione di Plutarco: «Esclamando ad alta voce, detto in latino: Maledetto Casca, che fai?». Quando Cesare vede Bruto, Quevedo si sentì in dovere di precisare: «Svetonio scrive che egli disse in greco E tu fra questi? Anche tu, figlio?». Era troppo forte la carica emotiva di questa frase perché Quevedo rinunciasse ad usarla.

Come prima accennato, però, solo il 14 luglio 1829 Giovan Battista Niccolini, in una lezione all’Accademia della Crusca, reciterà: «Tu quoque, Brute, fili mi, dovea scoter fortemente l’animo di quel Romano, e quel pensiero molto direbbe allo spirito, quantunque significato venisse con maggior numero di parole». Ecco la tanto celebrata, ripetuta e tradotta frase del povero Cesare, che invece, con ogni probabilità tacque sotto i colpi dei congiurati, solo dopo aver maledetto Casca.

Come è evidente, così come tutto ciò che sia narrato e tramandato, le ultime parole di Cesare mutano e si evolvono con l’andar del tempo: come è necessario sempre aggiornarsi! Lei si aggiorna, gentilissima?”

Madama Gorgonide, piccata, ma impossibilitata a replicare di fronte a tanta eloquenza: “Io? Sempre! Infatti adesso gliene dico un’altra che in Shakespeare è sbagliata: perché, a Roma, nel testamento di Cesare, Marco Antonio parla di dracme? La dracma è sempre stata una moneta greca! Che ci facevano le dracme a Roma?” Parla fra i denti; i serpentelli che sgusciano da sotto le poltrone, le si avvicinano scoraggiati e le circondano sempre più la testa per rifugiarvisi, cominciando a far oscillare il tòccoLa signora, sempre imperturbabile, sembra non accorgersene neanche. “Come mi fa piacere sentire che lei sappia che le dracme attiche fossero le monete greche più diffuse, allora…” he says instead, seeing that she starts scratching her head.

“Even in Rome? Impossible! Here then it is Plutarch who writes in Greek and Shakespeare takes boos for fiascos!”

“Shakespeare is not wrong, madam! They were drachmas, because the source changed, but the language did not change: Greek. Poor Plutarch is innocent! AND’ the historian Appiano, who lived in the 2nd century AD, who describes, again in ancient Greek, the tumultuous episodes following the assassination of Julius Caesar in the second book of his "Civil Wars", composed almost two hundred years after the events narrated. They are almost certainly based on the account of Asinius Pollio (who, at the time of Caesar's death, was in Spain), but Appian's version follows the pro-Anthonian orientation quite faithfully, most likely limiting himself to adding a few details. Here is the translation:

“After the reading of the will, when (on March 20) it became known that Caesar had been generous both with the people (to whom the gardens were given for use) and with the Roman citizens (each of whom was assigned seventy-five drachmas corresponding to about three hundred denarii), and above all with the leader of his assassins (Brutus, his sister's nephew, who in his last will Cesare had said he wanted to adopt), the reaction of those present against the Caesaricides was very strong (…)”.

"Here you are! See? I'm right! Three hundred to everything! Three hundred denarii for each Roman citizen, none excluded and excepted!”

“No, my dear! Three hundred sesterces and only for each of the one hundred and fifty thousand plebeians who received free grain from the State (and the public use for all, however, of the sumptuous gardens located across the Tiber”): this is the correct interpretation of what they are called in Appiano "to everything".

“Denarii, sestertii…the same thing! Let's not quibble now. It is certain that they were not drachmas.”

“No, they weren't, but they weren't money either. Let's hope! The sesterzio was introduced together with DENARIUS and to the quinary around 211 BC as a small silver coin worth 2 and a half asses and therefore 1/4 of a denarius. Which means that the denar(s) and the sestertius were not the same coin e the sestertius was worth 1/4 of a denarius. The attic drachma, in the first years of the empire, was equated to the Roman denarius at a value of 1:1 (approximately). Therefore, with all the more reason should the inheritance expressed in drachmas be changed into sestertii! Otherwise Cesare would have left each one 75 denarii. Do it a bit’ of accounts: if they had been money, they would have been an enormous amount each. Therefore the drachmas are to be exchanged for sesterces, not denarii. How many sesterces corresponded to 75 drachmas? Probably 300 sesterces.

“Then why Shakespeare writes dracme? Why doesn't he make the correct change in sesterces and leave drachmas? AND’ wrong and the text must be changed!”

“But Shakespeare was no money changer…Yet perhaps he noticed the mistake and the exchange between denarii and sestertii. And then, in order not to write an inaccuracy, he left dracme. Drachmas wrote Appiano, drachmas remained for Shakespeare! You don't change a comma; that text is sacred, lady! If in some way he harkens back to Appiano, let's also not forget that Willy wrote for an audience of all backgrounds, most of whom stood at the Globe even in the rain…That says? Would his spectators, even if they noticed the drachmas instead of the sesterces, start to calculate them during the show? I say no…Then everything also depends on the competence of Willy's translators! Attention! So, in conclusion, I have shown you that reliable sources and mathematical certainties on "Julius Caesar" (and others) cannot be found anywhere.

Madame Gorgonide, who in the meantime had collected in a sort of skein all the little snakes which had become so sad that they had reattached themselves to her head and was holding them together with one hand, causing the touch to fall to the ground, gritted her teeth in anger, but turned away suddenly to one side, because he had caught a glimpse of a mirror: fatal danger!…It was the one from the leading actor's dressing room, who, well hidden, had watched that dialogue with satisfaction and who, seizing Madame Gorgonide by her snake-like hair, pulled her with him into the dressing room without too much effort and made her look at her in the mirror, pressing her nose against her mirror.

Then, without firing a beat, the head with all those dangling snakes remained in his hand, while the robed body slid inertly under the dressing table, a little’ disgusted, but with a satisfied air, he turned to the well-known and welcome guest, who, unruffled, had remained seated in the front row and was smiling at him: " Dearest, Melpomene, what a hassle, every time, having to get rid of it! – he exclaimed - but don't worry: I'll throw it in the rubbish bin when I leave the theatre. Thanks for everything!".

Natalia Dantas © Vezzi and Malvezzi

Sources:

Plutarco: The Quick Parallel (Caes. 55-66)

Suetonius: De Viris Illustribus, Divus Julius (Book 1, Par. 82)

Appian: The Civil Wars (Book II)

Roberto Toppetta: The funeral of Cesare

Lucius the Etruscan give "Nonquelmarlowe"

Simone Beta: The spectacle of the speeches on the death of Caesar: from the Forum to the Theatre

Valerio.Sampieri from “Quid novi?”

AA.VV.

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