par Natalia Dantas – Riflessioni sull’opera drammaturgica di Eduardo De Filippo e sulla sua messa in scena oggi.
Ogni anno, cessati i clamori del periodo natalizio, sembra che il grande Eduardo De Filippo, con il suo Teatro, venga riposto in un armadio, conservato insieme a pastori, re Magi e addobbi vari del suo celebre presepe. Pare un destino, curioso assai, ma un destino. Dopo le feste di Natale, l’interesse per la drammaturgia del De Filippo sembra assopirsi, per poi risvegliarsi replicata un anno dopo, di nuovo, sempre con “Natale in casa Cupiello”. Non c’è Natale che non sia accompagnato in televisione da questo lavoro teatrale d’infinita profondità e attualità, nonostante possa esprimere usi e costumi appartenenti ormai ad una o più generazioni passate.
Eduardo e il suo Teatro, così, sembrano ormai ridotti, per il grande pubblico, soprattutto a quest’opera teatrale. Eppure ci sono molte altre “commedie” che non meritano di essere tenute conservate in un armadio. Eduardo meriterebbe molto di più del tentativo di Vincenzo Salemme di riportare dal vivo, in diretta, la detta commedia, ovviamente in periodo natalizio 2024, pur di fronte a milioni di telespettatori ed in suo onore. Il risultato, invero, nonostante la buona volontà, si è dimostrato modesto. I tempi teatrali non erano quelli, la compagnia non era adeguata, lo stesso Salemme non sembrava riuscire a cogliere l’eredità del suo grande concittadino.
Analoga considerazione si può addurre prendendo ad esempio un’altra versione della commedia (su questo termine si tornerà), girata come un film dal regista Edoardo De Angelis, con Sergio Castellitto protagonista, sempre per la RAI, nel 2020. Drammatico in eccesso, sia pur molto credibile e delineante un carattere irascibile che potesse precorrere la fine improvvisa del padrone di casa, la regia eliminava ogni momento di voluta leggerezza del testo, a favore di un fosco dramma, che non rendeva una corretta lettura drammaturgica. Il film era pregevole, ma Eduardo era lontano anni luce e il confronto inevitabile.
A proposito di “confronti”, un confronto fra le due versioni moderne sopra citate e la messa in scena originale, quella più riuscita delle due conservate nelle Teche RAI dello stesso autore e interprete, facente parte del ciclo dedicato a fine anni ’70 del secolo scorso ad un Eduardo ormai anziano, ma quanto mai efficace, porta proprio innanzitutto a riflettere sul termine “commedia” nella sua produzione drammaturgica. Bisogna dare atto a Vincenzo Salemme che sia stato l’unico fra i sopracitati artisti, a calcare in diretta le tavole del palcoscenico in televisione ed a mettere in scena oggi il testo originale, dichiarandolo apertamente “commedia di Eduardo de Filippo”.
Perfino la versione dell’opera teatrale realizzata in tarda età dal nipote di Eduardo, Luigi, sempre per la Rai, pur pregevole, non è all’altezza di cotanto erede. Oltretutto, in un’intervista, Luigi insisteva nel denominare “commedie” i lavori teatrali dello zio. Ovviamente non ci si addentra in questioni che hanno spaccato la famiglia dei grandi interpreti, fino alla completa rottura tra Eduardo e Peppino, ma ci si limita a ricordare che Luigi fosse figlio di Peppino, il quale anch’egli rivendicava la propria, più modesta, identità di drammaturgo. Dunque, tralasciando le eventuali posizioni personali in famiglia, la produzione drammaturgica di Eduardo non si può definire che con un solo termine: “Teatro”; ed è grande Teatro. E se il Teatro è grande, allora può essere, nello stesso tempo, commedia, dramma e perfino tragedia. Ogni sfaccettatura dell’esistenza umana coinvolge i personaggi in scena, ogni sentire dell’autore si immilla in un soffio di genio. Dunque, a cominciare da “Natale in casa Cupiello”, non si trova corretto definire “commedie” i lavori teatrali di Eduardo.
La presunta “commedia” che verte sul tanto combattuto “preseppe”, in particolare, è un drammatico spaccato, impressionante per realismo e veridicità, della vita in famiglia. Tutti abbiamo vissuto momenti di discordie e rappacificazioni, d’odio mescolato all’amore, di tragedie che fanno sorridere e di commedie che fanno piangere. Il De Filippo le ha immortalate senza veli. E non è questa la sede per discettare delle capacità geniali di Eduardo attore, protagonista del proprio Teatro, ma soltanto un modo di riflettere su quanto la drammaturgia di un grande italiano sia come “fuori posto” tra le produzioni dialettali, lì dove il dialetto napoletano, se bene recitato è comprensibilissimo, si fa linguaggio universale, travalica grammatica e sintassi italiana ed esprime tutto ciò che si possa esprimere in qualsiasi lingua.
Sono stati ovviamente sparsi fiumi d’inchiostro sull’argomento, ma qui si ribadisce soltanto, con molta semplicità, che relegare Eduardo tra gli autori dialettali e, dunque, fra i “Minori” è un malvezzo da eradicare definitivamente, così come sarebbero da eradicare gli ormai innumerevoli e mai ben riusciti tentativi di imitarlo o di emularlo sul palcoscenico e al cinema.
Eduardo è se stesso. Non si può imitare, è inafferrabile. Abbiamo avuto la fortuna di vedere con i nostri occhi come intendesse mettere in scena il proprio teatro: egli stesso protagonista, con accanto il meraviglioso figlio Luca, che troppo presto ci ha lasciati. Eppure, neanche Luca avrebbe potuto, né voluto, considerarsi “erede” del grande suo padre. Eduardo non ha mai avuto eredi e il fatto di poter attingere oggi, nel progetto di rimetterlo in scena, direttamente dalla sua grandezza, immortalata dalle telecamere sul palcoscenico, se da una parte ha stigmatizzato parti improvvisate che oggi fanno testo esse stesse senza comparire nella scrittura originale, in un certo senso lo ha penalizzato, portando gli studiosi e gli appassionati alla sconsolata conclusione che nessuno, probabilmente, sarà mai all’altezza di competere con lui sulla scena e nella messa in scena.
Diceva Orson Welles: “Eduardo è un puro napoletano; ma non c’è attore più avaro di lui nei movimenti. Non si accontenta di dominare la scena; concentra su di sé la sala intera… E questo, con un’economia fisica quasi irreale. Non c’è un suo equivalente fra gli attori di cinema, che si pensa siano costretti a trattenersi dalla vicinanza della macchina da presa. Ma, anche quando recita nella sala più grande, Eduardo riesce a proiettarsi in «primo piano» fino in fondo al loggione. È il più grande attore del mondo.”
Dunque, come fare a mettere in scena il teatro di Eduardo senza fargli il verso o senza travisare la levità della sua tragedia o la gravità profonda della sua commedia che rivivono ineluttabilmente attraverso la sua propria parola, i suoi gesti, la sua regia?
Il sistema, probabilmente, è uno solo: non cercare di interpretarne fini e mezzi, lasciare libere le sue produzioni teatrali di esprimere ciò che esprimono con la stessa naturalezza con cui venivano scritte, improvvisate e interpretate dall’autore. Lì dove per “improvvisazione” s’intendano quelle parti che lo stesso Eduardo ha inserito nelle messe in scena delle sue commedie e che sono diventate, come si accennava, parte integrante della sua scrittura drammaturgica.
Per fare un esempio, in “Natale in casa Cupiello”, la scrittura originale è molto concisa, schietta, difficile a volte da lasciare intendere se vada sul comico o tenda al drammatico, e non contiene parti come la descrizione del “cappotto nucella”, dello zio, venduto da Tommasino mentre zio Pasquale era malato: nella scrittura non compaiono. Non c’è il colore del cappotto, né si parla della pelliccetta, né della fodera scozzese: tutto inserito ad arte dall’autore in video, con grande capacità, e che naturalmente nessuno si fa più scappare come originale scrittura di Eduardo. Non per questo, però, nelle moderne messe in scena, l’attore di turno si senta autorizzato all’improvvisazione. Gli spazi lasciati da Eduardo nella propria scrittura appositamente per lasciare campo aperto all’improvvisazione, sono stati già da lui stesso riempiti e stigmatizzati. Dunque nessuno dovrebbe improvvisare su un testo ormai completo che, oltretutto, è da considerare un “classico”. Eduardo ha scritto e detto già tutto. Non serve aggiungere altro, qui e altrove.
Occorrono grandi attori, allora, grandi compagnie per cogliere tutto ciò senza travisare le intenzioni dell’autore? Sicuramente occorre talento: basta toccare i tasti corretti e introiettare profondamente i suoi insegnamenti sia drammaturgici che registici, al punto, poi, da poterli rimettere in scena ab origine.
Indimenticabile la sua “lezione di regia” in seno alla commedia “Uomo e galantuomo”. Eppure, anche quella, pur essendo prevista nella scrittura, nella messa in scena televisiva anni ’70 viene modificata, ampliata, accentuata nella comicità, fino a diventare una sorta di autoritratto del capocomico Eduardo che, serio e severo com’era nella vita, pretendeva il massimo dalla propria compagnia di attori. L’autoritratto di un grande. E, come tale, irripetibile e solo riproducibile; oppure, in seconda istanza, da non tenere in considerazione, attenendosi solo al testo scritto.
Per cogliere nel segno, allora, non sarà più il teatro di Eduardo, quello che tutti ci ricordiamo, ad essere riportato in scena, ma il teatro universale a parlare, quello che non conosce né calendario né interpreti, come sicuramente accadde col grande Molière. Venne il tempo in cui chi lo aveva visto in scena “dimenticò senza dimenticare” la sua unicità anche come interprete e diede così il via alla fortuna del suo immortale teatro.
Ergo, la soluzione del problema “l’inafferrabile Eduardo”, in fondo potrebbe essere semplice: lasciarlo rivivere e interpretarne l’essenza priva di imitazione. Saperne far rinascere la voluta vaghezza di costruzione e di messa in scena, come per esempio in “Questi fantasmi!”: lì il genio riusciva a non farci comprendere se il protagonista Pasquale Lojacono, indicato nel testo dallo stesso autore come “anima in pena” credesse o meno ai fantasmi, pur rendendoci paradossalmente coscienti che non ci credesse.
Alessandro Gassman, protagonista Massimiliano Gallo, ha provato a riprendere il lavoro nel 2024, con eleganza, ma senza riuscirci. Aprendo il film con l’interpretazione “grottesca” (non “comica”), che è quella giusta di Eduardo, Gassman figlio ha travisato il finale, rendendolo dichiaratamente drammatico. La levità assurda e geniale del “è vero o non è vero?”, “ci crede o non ci crede?” voluta da Eduardo, lasciata in sospeso e che è la forza di questo testo teatrale straordinario, è stata “modificata”, perché il regista ha voluto dare la propria interpretazione personale, quella più scontata: “non ci crede”.
Molto chiara dimostrazione, nonostante la qualità patinata della produzione, che la genialità altrui sia difficile da replicare. Alessandro Gassman si è solo “servi” del testo di Eduardo. Il che è lecito, perché si trattava di un film e i titoli recitavano “Tiré de la comédie d'Eduardo de Filippo” et «Sujet d'Eduardo de Filippo”. Dunque ogni paragone con la commedia originale di Eduardo può non sussistere, ma la matrice ne risulta alterata.
In conclusione, diventa inutile dare per scontato fin dall’inizio il carattere drammatico o comico della messa in scena dei lavori dell’autore, il definire o non definire di stare allestendo un dramma o una commedia: i due generi sono modulati così intimamente che non saranno mai scindibili.
S’immortali, dunque, mettendolo in scena, il grande teatro di Eduardo con il rispetto e la capacità di tenerlo “sospeso”, così come faceva lui, tra risata e pianto, tra gioia e dolore, come in tutte le famiglie, come nella vita, come in tutti i capolavori del Teatro di tutti i tempi…Senza mai dimenticare l’autore, ma rendendolo un’inarrivabile e inimitabile icona come attore e regista a cui ispirarsi e un grande drammaturgo di cui mettere in scena la produzione.
Natalia Dantas
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