I CAPULETI E I MONTECCHI a Palermo – Recensione

di Natalia Di Bartolo – al Teatro Massimo, sul podio il M° Omer Meir Wellber, con la regia di Idan Cohen, una messa in scena bizzarra.


Può capitare che a volte il musicologo sia anche un cinefilo e che, reduce dall’aver visto il recente film Saw X della celebre saga horror americana, ne ritrovi il clima “ospedaliero” in palcoscenico, ma non in versione apparentemente salvifica da clinica di lusso, ma in versione di una sorta di museo tassidermico, che facesse ripercorrere all’indietro l’intera storia, con la solita, infinita e spesso vana ricerca del “visionario”. Nella fattispecie a Palermo in un’opera che tutto echeggia e ispira tranne che atmosfere asettiche, sale operatorie tassidermiche e musei da camici bianchi: “I Capuleti e i Montecchi” di Vincenzo Bellini, in scena sul palcoscenico siciliano il 26 novembre 2023.

Ma, prima che si ritorni all’ambientazione ed alle atmosfere ideate dal regista e coreografo israeliano Idan Cohen, ciò che va sottolineata è l’esecuzione musicale.

Sul podio il Maestro Concertatore e Direttore d’Orchestra Omer Meir Wellber, alla guida dell‘Orchestra Stabile del teatro palermitano.

Il Maestro Wellber, apparso più alla ricerca dei significati che della cura del significante, ha tenuto un andamento agogico altalenante, distinguendo nettamente la parte che ha definito “cantabile” da quella orchestrale e corale. Il Maestro ha sottolineato in sede d’intervista il tentativo di distinzione fra le due parti e la debita ricerca di “pathos” . Ma il pathos non si trova solo nelle parti orchestrali e corali, con man forte del balletto, ma anche in quelle che egli stesso ha definito “cantabili”. La ricerca di pathos ha involontariamente creato una serie di dicotomie arbitrarie “dentro” la coerenza stilistica ed esecutiva del capolavoro belliniano. Il Maestro Wellber stesso, inoltre, aveva prudentemente preannunciato che i tempi in Bellini possano variare in base ai singoli interpreti; il che è sempre normale per un direttore che tenga in pugno anche il palcoscenico. Ma questo non si può applicare pure alle parti orchestrali, che dunque hanno seguito un andamento variegato, addirittura a tratti rossiniano nella sinfonia.

La direzione, nel suo complesso si è dimostrata anche poco attenta alle sfumature in orchestra. Sono balzate all’orecchio, in particolare, alcune imprecisioni del Corno solista che precede e accompagna, insieme all’Arpa, il meraviglioso ingresso di Giulietta con la cavatina “Eccomi in lieta vesta – Oh! Quante volte…”; e altrettanto, a tratti, ha lasciato a desiderare la pulizia degli attacchi e delle chiusure orchestrali. Ad ogni modo, per fortuna, mantenendo il Maestro Wellber, in particolare nella sua cosiddetta parte “cantabile”, un’ispirazione di stampo nettamente lirico e “dolce”, a momenti il vero Bellini con tempi, dinamiche e tutto il resto è venuto fuori con forza, quasi di prepotenza, al di là di tutto.

Anche al di là di una Giulietta, la spagnola Marina Monzò, al debutto nel ruolo, alla sua seconda prova belliniana dopo “I Puritani”, con relativa mancanza di esperienza che si sentiva tutta: voce appena un filo, con problemi di proiezione e squillo. Tuttavia, nonostante diverse prese di fiato arbitrarie nella celeberrima cavatina suddetta, è stata nel complesso una Giulietta di notevole bellezza estetica ed è giusto riconoscerle una delicata interpretazione.

Nei panni di Romeo, anch’ella al debutto nel ruolo, l’ottimo mezzosoprano russo Maria Kataeva, protagonista maschile che era en travesti solo d’aspetto ma non di stile canoro, perché cantava decisamente “da donna” e come tale veniva intuita. Una lettura insolita, che non è stata del tutto inopportuna: del resto, Bellini scriveva per due donne e quindi il mezzosoprano en travesti tramandato dalla tradizione può anche in certi casi apparire forzato, alla ricerca di un improbabile mascolinità. Preferibile quindi la naturalezza, che ha giovato al suo apporto pure in duetti e concertati.

Tebaldo, Ioan Hotea, tenore dotato dei dovuti sovracuti è stato corretto nella propria parte; altrettanto Capellio, Marco Spotti e Lorenzo, Gabriele Sagona; nonché il coro del Teatro Massimo guidato dal M° Salvatore Punturo.

Ma, per tornare a quanto accennato all’inizio, l’ambientazione oscura e asettica di Idan Cohen, animata in maniera incoerente dal Corpo di Ballo del Teatro Massimo su sue coreografie, restava, nonostante le contorsioni mentali su trama e personaggi, priva di un reale senso. Il tutto per mostrare come la sorte dei due giovani shakespeariani (che in questa versione shakespeariani non sono) fosse predestinata e cercare di narrarla come “impagliata” e sempre uguale a se stessa, in un museo. Decisamente opinabile, poi, il cigno insanguinato disteso su un lettino operatorio con la testa poggiata su un cuscino di velluto rosso; lo stesso tavolaccio che sarebbe diventato il sepolcro di Giulietta. Che il cigno rappresentasse Giulietta, anche dal costume dotato di piumaggio della protagonista, parrebbe ovvio, ma il significato traslato applicabile anche alla salma del Cigno catanese strideva fortemente.

Romeo e Giulietta, che erano concepiti fin dall’inizio come già morti per il padre e tutti gli altri personaggi, a dire del regista, si muovevano in una atmosfera irreale lucida di vetri e acciaio di criptica lettura e, a momenti, perfino di una invadenza rumorosa, così come è successo alla porta di una cabina a vetri durante la Cavatina di Giulietta al primo atto, che ha riempito una lunga pausa musicale con uno sgradevole scatto meccanico.

Dunque un museo distopico, tra teche di vetro e maschere d’animali, un conflitto infinito tra due famiglie, come in un “loop” che il regista pare voglia ravvisare, non si sa bene come e perché, anche nella musica di Bellini; il tutto contenuto nelle scene di Riccardo Massironi e con i costumi/camici e copricapi di Edoardo Russo e illuminato dalle luci di Bambi.

Nessuno toglie dalla convizione di chi scrive che in questo nuovo e bizzarro allestimento de “I Capuleti e i Montecchi” fosse presente sia l’ispirazione scenica al film della celebre serie horror americana Saw, sia l’ispirazione” a certe scenografie e coreografie “d’autore” ben più illustri e collaudate. Era palese: traspariva dagli accessori e copricapi di coro e comparse, dai movimenti e dal garbuglio di personaggi che si assiepavano attorno soprattutto a Giulietta, rimanendo tra il mimo ed il balletto anche durante alcune parti orchestrali. Un assai poco originale déjà vu che sarebbe stato ben più elegante evitare.

Pubblico tiepidamente plaudente, invero, di fronte all’intero spettacolo.

Natalia Di Bartolo ©

FOTO  Rosellina Garbo / Franco Lannino ©