TRACHINIE di Sofocle – Analisi critica di Natalia Di Bartolo – La tanto discussa dicotomia del capolavoro sofocleo non sussiste.
Leggendo il testo greco di Eracle sofferente, che si lamenta per atroci dolori e parla con il figlio Illo, nella seconda parte della Tragedia Tραχίνιαι, “Trachinie”, ovvero “Le donne di Trachis”, in Tessaglia, di Sofocle, non può che venire in mente quella sorta di dicotomia che ha da sempre caratterizzato tale opera teatrale: il mai incontrarsi di Deianira, moglie di Eracle, col marito, nel corso della tragedia; quando Eracle soffre, Deianira è già morta, senza averlo rivisto.
Questo non indifferente dato di fatto, ha da sempre diviso gli studiosi nel dare più o meno valore artistico alla tarda Opera Sofoclea, risalente al 429 a.C., considerata “scissa” e, quindi, mancante di quell’unitarietà di svolgimento e contenuti che da sempre viene portata ad esempio della migliore produzione del grandissimo Tragediografo greco. In realtà, l’unitarietà esiste e, quindi, la tanto lamentata dicotomia può essere considerata un falso problema.
La tragedia in questione da diversi anni è in fase di intenso studio e finalmente si è riusciti a trarne ciò che di misterioso Sofocle vi abbia voluto celare, tirandosi addosso gli strali di una critica millenaria. Tra gli ultimi approfondimenti in ordine di tempo, lo studio e relativa traduzione (utilizzata nel XLIII Ciclo di Spettacoli Classici del 2007 al Teatro Greco di Siracusa) compiuti dal Prof. Salvatore Nicosia , Professore Emerito dell’Università di Palermo, illustre grecista.
La sua “rivisitazione” ha portato, oltre che ad un chiarimento degli intendimenti artistici sofoclei, anche ad una semplificazione dei termini aulici di solito usati per il lessico ed alla distensione sintattica del periodo; il che, pur non cadendo nella sciatteria di un linguaggio da quotidianità, mantenendo il verso, ha permesso uno “scorrere” limpido e chiaro del testo, a tutto favore dello svolgimento dell’azione scenica.
La traduzione del testo greco è sempre e comunque di straordinaria importanza: è in versi. Il portarlo ad una trasposizione italiana sempre in versi, adeguatamente comprensibile e moderna, o ad una prosa che sia moderatamente “quotidiana”, ma che non ignori il ritmo di una versificazione metricamente da sempre codificata, è opera di cesello e molti studiosi vi si sono cimentati, con risultati più o meno validi.
L’eccesso di modernità potrebbe, ad avviso di chi scrive, snaturare la versificazione originale e portare sulle labbra degli interpreti moderni novità di eccessiva contemporaneità: ciò non deve succedere, così come, purtroppo, inizia a succedere oggi sui nostri storici palcoscenici. Ma, superato lo scoglio delle raffinatezze di significato ed interpretazione, che non devono sfuggire ad un attenta lettura linguistica, tramite un’altrettanto attenta, indispensabile lettura critica del testo di “Trachinie”, si può intuire il vero nocciolo della questione, dichiarando finalmente e definitivamente falsa la tanto reiterata accusa di dicotomia: è venuta finalmente fuori la profonda, occulta corrispondenza che esiste tra marito e moglie, fra un Eracle abbrutito ed umanamente sofferente ed una Deianira trasformata da Sofocle in donna greca esemplare per costumi e priva di quella gelosia morbosa e vendicativa che la Mitologia greca ci tramanda.
Deianira, infatti, secondo la leggenda, era una donna di carattere violento e vendicativo, gelosa del marito Eracle al punto da ucciderlo consapevolmente. La mitologia ci tramanda che il chitone mortale donato ad Eracle non era intriso solo del sangue del centauro Nesso, ma anche del suo seme e che Deianira era al corrente del pericolo ed aveva utilizzato il veleno sapendo di uccidere. Sempre nella mitologia, Deianira era una donna sensuale, carnale, che l’eros aveva permeato di violenta passione e gelosia. Ella si sentiva non solo la moglie, ma soprattutto l’amante di Eracle.
Da un’acuta lettura registica di Walter Pagliaro, nel 2007, al teatro greco di Siracusa, un letto di legno troneggiava sulla scena e non stava lì a caso, ma era il “luogo deputato” alla vita ed alla morte, all’amore ed alla sofferenza, al concepimento ed al suicidio nonché il “trait d’union” che unificava l’azione scenica e ne traeva ciò che un Sofocle ormai maturo vi aveva volutamente nascosto. Su quel letto Deianira si pugnalava al fianco, suicidandosi; su quel letto veniva adagiato Eracle morente, ma come se si trattasse di due storie diverse in un unico contesto: marito e moglie, volenti o nolenti, erano ormai estranei l’uno all’altra: ecco il vero perché dell’apparente dicotomia della tragedia.
Ma, al di là della singola invenzione registica, essi restano pur sempre le due facce di una stessa medaglia: umani e lontani da eroismi e sacralità, entrambi muoiono; e che la morte di Eracle non abbia alcun connotato di innalzamento allo stato di deità, per lui, figlio di Zeus non è che la prima ed unica fondamentale sconfitta: Eracle perde proprio contro il nemico ultimo ed invincibile: la morte.
Deianira, dunque, in “Trachinie” moglie saggia, amorosa e lungimitrante, non si vendica, come sempre la mitologia tramanda, del tradimento del marito che le ha imposto in casa la bellissima e silenziosa Jole, figlia del re di Ecalia e prigioniera di guerra di cui si è carnalmente invaghito, ma compie il fatale errore di credere al centauro Nesso, ucciso anni prima da Eracle, che le aveva svelato come il proprio sangue fosse un potentissimo filtro d’amore; esso, che invece era un veleno mortale, era stato da lei conservato gelosamente, in attesa di usarlo in caso di attenuazione dell’amore coniugale da parte del consorte.
Deianira, donna proba e fedele, adesso non poteva davvero sopportare che il marito le imponesse l’amante di turno in casa. Quale migliore occasione, quindi, per ricorrere ingenuamente al tanto gelosamente custodito sangue di Nesso? Ma la sua trama a fin di bene la porterà, sotto violenta accusa anche del figlio Illo, all’accorgersi del fatale errore che sta uccidendo Eracle e, quindi, al suicidio, quale fine di ogni prigionia morale e materiale, quale annientarsi nell’oblio del fallimento di moglie, madre, donna.
Splendido il racconto, declamato dalla nutrice di Deianira, che Sofocle fa dell’atto mortale compiuto dalla protagonista sul talamo nuziale; il suo denudarsi un seno ed un fianco per attingere la morte quale fine di ogni male ed errore è quasi conturbante e, forse, vi si può leggere un ultimo, definitivo e distruttivo amplesso con Dioniso, dio dell’eros, che ella ha sempre portato in sé, inconsapevole, e che Sofocle le ha attribuito dotandola di una assai ben celata lascivia. E’ così che la carnalità rientra nella tragedia molto più che la deità o l’eroismo: Dioniso, dio non solo dell’eros, ma anche della rappresentazione e del teatro, in fondo, la fa da padrone e governa i fatti che il Fato ha disposto essere tutt’altro che eroici per entrambi i protagonisti.
Eracle chiede al figlio di essere arso sul rogo per porre fine alle proprie atroci sofferenze: nulla di eroico neanche in quella morte, che ricerca la pace dal dolore fisico insopportabile. Egli, che aveva affrontato le immani fatiche, soccombe all’inganno che avvalora l’oracolo che gli aveva predetto “morte da parte di un morto” ed umanamente chiede di morire: una specie di eutanasia, crudele e toccante, sia pur uscita dalle stesse labbra che non si pentono dell’amore per Jole; anzi, che ne impongono la promessa di matrimonio al figlio.
Carnalità dionisiaca, nel trionfo della morte del corpo. E se pensiamo che i due personaggi di Eracle e Deianira, ai tempi di Sofocle, venivano interpretati dallo stesso attore, anche i lunghi “stasimi” del Coro di donne trachinie, a cui la tragedia, non a caso, è intitolata, assumono una valenza assolutamente teatrale, da lasciare intatta volutamente nella propria dilatazione a-temporale.
Lo stàsimo del coro ed il monologo della nutrice (in tutto lo spazio di 120-130 versi) tra la morte di Deianira e l’apparizione di Eracle morente, per esempio, servivano all’antico attore per cambiare il costume da donna e riapparire nei panni maschili di Eracle (le maschere usate allora nella tragedia consentivano ancora più agevolmente tale metamorfosi); tali stasimo e monologo, oggi, servono a trasportare lo spettatore in una dimensione “sospesa”, che lo faccia riflettere sull’accaduto e prefigurarsi il seguito.
Non inutili, quindi, i tempi dilatati, anche in altri momenti della tragedia: sono proprio quelli sofoclei; e rispettarli è fondamentale. Seguendo il canto-declamazione-danza del Coro, ci si snatura, quasi ipnotizzati, e si viene fuori pure dal ritmo della vicenda narrata sul palcoscenico, concedendo spazio anche ai silenzi, che, a volte, sono più eloquenti delle parole.
Dunque? Dunque Deianira ed Eracle sono, come prima accennato, le due facce della stessa medaglia: umani e lontani da eroismi e sacralità, entrambi muoiono; e che la morte di Eracle non abbia alcun connotato di innalzamento allo stato di deità, per lui, figlio di Zeus, non è che la prima ed unica fondamentale sconfitta: Eracle perde proprio contro il nemico ultimo ed invincibile: la morte.
Tragedia difficile, quindi, “Trachinie”, tarda, di un Sofocle anziano e provato dalla vita, ma che solo allora poteva dar fiato ad un’ispirazione così originale. Un genio può tradirsi, ogni tanto, producendo qualcosa di meno interessante rispetto alla propria media, ma un Grande Sofocle anziano non poteva aver dato vita a qualcosa che fosse inferiore alla propria produzione. E “Trachinie” è un capolavoro. Non è inferiore a nessun’altra la tragedia in questione: solo “diversa” e di controversa interpretazione.
Difficile è comprenderla ed ancora più difficile farla comprendere al pubblico. Sviscerare quanto sopra accennato e porgerlo con il massimo della chiarezza possibile al fruitore che attende tragedia, non può che, nel massimo dell’attenzione a temi, fatti, personaggi, intendimenti palesi o nascosti dell’autore, portare a porgergli tragedia; anche in questo caso, dunque, come sempre in Sofocle, tragedia grande ed umanissima.
© Natalia Di Bartolo
Foto dal Web – INDA, Siracusa