Review: OTELLO al Bayerische Staatsoper

Review: OTELLO al Bayerische Staatsoper – by Natalia Di Bartolo – La messa in scena nella nuova produzione di Amélie Niermeyer, non può essere condivisa.


La battaglia per l’affermazione dei diritti della donna è giusto che passi anche dall’Arte e dunque dal teatro, pure per quanto riguarda l’Opera. Ma c’è un punto fondamentale da rilevare: tale affermazione non può investire e alterare la valenza strutturale dei singoli personaggi femminili, la loro corretta connotazione caratteriale: essi sono stati creati per essere solo se stessi.

And’ per questo che la messa in scena di Otello al Bayerische Staatsoper il 2 dicembre 2018, nella nuova produzione curata dalla regista Amélie Niermeyer, non può essere condivisa.

Nessuno nega in Desdemona uno spirito libero, aperto al nuovo, alla cultura ed all’intraprendenza, ma non si può fare di lei una donna guerriera e attorno alla quale ruoti l’intera vicenda. Desdemona è diventata, in mano alla regista, una sorta di paladina dei diritti femminili violati, negandole quell’umanità fragile che Verdi le ha instillato magicamente, insieme a tutta la forza che una donna, capace di divenire ed essere sposa di un capitano moro possiede ed ha dimostrato e dimostra a se stessa e al mondo. Dalla penna di Shakespeare, a quella di Boito, fino alle stupende note verdiane, Desdemona non è una Walkiria, né una dominatrice, ma una donna dalla meravigliosa sensibilità e dall’innocenza d’agnello sacrificale.

L’algida e teutonica Anja Harteros che a Monaco l’ha interpretata, invece, piantata come un tronco lì dove era stata messa, non ha mosso un sopracciglio per l’intera durata dell’opera. E oltretutto, anche vocalmente, il soprano, sia pur possedendo una voce di tutto rispetto, non dovrebbe impiegarla in una parte che richiede delicatezza, piano e pianissimo, filati sottili e traslucidi, mirabilie vocali e coinvolgimento emotivo: non li possiede e dunque non può esprimerli.

In tal modo lo stesso protagonista Otello è rimasto, probabilmente a ragion veduta, messo in ombra dalla regia, risultando una sorta di psicotico debole dalla doppia personalità e tutt’altro che eroico, affidato alla voce ed all’interpretazione, entrambi assai discutibili, di un sopravvalutato Jonas Kaufmann.

A parte il fatto che non un minimo connotato facesse rilevare il protagonista come “moro”, transeat il colore della pelle, ma non certo l’interpretazione: debole, spiazzata, incerta, sia scenicamente che vocalmente. Una voce, quella del Kaufmann, che anch’essa si vanta di essere teutonica e che quindi nell’opera italiana andrebbe modulata in modo adeguato. Invece il tenore canta di gola soffiando a vuoto almeno la metà del fiato, il suo appoggio diaframmatico è solo un’ipotesi, la regolare “spinta” per le note che utilizzano i risuonatori della fronte è assente. I piano sono insopportabilmente stimbrati, come neanche sia lecito ne “Les pêcheurs de perles” della più pignola ed esclusiva Tradition Française. Le vocali aperte italiane, poi, sono risultate spesso chiuseper cui un “EsultOte” è molto diverso da un regolare, più o meno stentoreo, “EsultAte” e lo spettatore ne è rimasto interdetto. Oltretutto, un acuto claustrofobico, lanciato a Desdemona in camera da letto.

Una scena spoglia, quella dello scenografo Christian Schmidt, priva di qualsiasi connotazione che la collegasse alle Shakespeariane vicende cipriote e veneziane, neppure in qualche orpello simbolico. Un Otello che si è mosso tra il letto e il caminetto della stanza di Desdemona, in una voluta astratta collocazione che ne poneva le vicende, in apparenza, nel periodo anni 40/50 del secolo scorso. Tanto per cambiare: se ne ha ormai a iosa di queste ambientazioni e, oltretutto, per realizzarle, bisogna saperci fare: qui è apparsa una vera forzatura, sia pure volutamente stilizzata.

Jago, il baritono canadese Gerald Finley, l’unico in scena che, nonostante non possieda una voce particolarmente potente, almeno rispecchiava in qualche modo l’identità del personaggio, veniva nell’interpretazione anch’egli distorto dalla regia, che, pure nel farlo vestire dimessamente e nel fargli infilare ai piedi dei calzini con le punte rosse dalla costumista Annelies Vannaere, ne sottolineava (forse) sì la perfidia, ma lo rendeva quasi un clown. Per cui, se da una parte sembrava di vedere in Otello una sorta di Canio volgare e violento in completo jeans, in Jago non si poteva che rilevare l’ombra assai malcelata e sconnessa di un Tonio. Così come, a ben rifletterci, non si poteva fare a meno di rilevare che in una Desdemona tutta satin, anche nero con dettagli rossi, ci fosse perfino qualcosa di Lady Macbeth. Un minestrone sconcertante e incolto di presunta opera italiana, dunque, con risultati grotteschi e inverosimili, confermati dai comprimari e dal coro.

Ergo, neanche la bella direzione del M° Kirill Petrenko, alla guida dell’orchestrona di tutto rispetto del Bayerische Staatsoper, riusciva a lenire le sofferenze auditive dell’intenditore, al quale non rimaneva, per evitare di alzarsi e andare via prima della fine dell’opera, che ascoltare (patendo) ad occhi chiusi.

Natalia Dantas

PHOTOS © Bayerische Staatsoper