Critique : MOSE’ EN EGYPTE de Rossini à Novare – Il Teatro Coccia di Novara si è lanciato nella difficile avventura della messinscena –
Par William Fratti –
Nel centocinquantesimo anniversario della morte di Gioachino Rossini molti teatri si sono occupati dell’esecuzione di alcune opere del pesarese, dalle più alle meno conosciute. Il Teatro Coccia di Novara, in coproduzione con il Teatro Verdi di Pisa da cui proviene lo spettacolo, si è lanciato, il 18 novembre 2018, nella difficile avventura della messinscena di un titolo piuttosto arduo, vincendo la scommessa.
Francesco Pasqualetti si distingue per una direzione compatta e ben amalgamata, da cui emerge un buon dialogo tra buca e palcoscenico, sia nei momenti solistici che nei pezzi d’assieme. Lo stile rossiniano è ben chiaro, mai matematico, sempre attento al fraseggiare degli interpreti che sono il punto di forza dell’esecuzione. Il solo piccolo neo è talvolta riscontrabile in un’eccessiva sonorità, anche se il bel suono dell’Orchestra della Toscana non lo rende fastidioso. Il Coro Ars Lyrica preparato da Marco Bargagna si mostra pienamente adeguato alla situazione, seppur la grande preghiera di terzo atto “Dal tuo stellato soglio” non sia certamente la parte più riuscita della rappresentazione.
Natalia Gavrilan, vera protagonista dell’opera, porta in scena una Elcìa non particolarmente elegante, ma perfettamente riuscita nello sfoggio della tecnica di canto, di cui si riconosce chiaramente la maniera rossiniana. La vocalità brunita, con quei peculiari affondi che possono piacere o meno, la competenza professionale e solida, l’ottimo virtuosismo, nonché la capacità di variare le dinamiche, le permettono di riuscire sapientemente nelle insidie del ruolo Colbran, che trova il suo culmine in “Tormenti! Affanni! Smanie!” a conclusione del secondo atto.
La affianca un Osiride altrettanto vittorioso. Il saper cantar Rossini di Ruzil Gatin proviene dall’Accademia di Pesaro e si sente. Vocalità luminosa e ben proiettata – piacevolissimo l’attacco di “Ah se puoi così lasciarmi” – acuti facili e svettanti, agilità ben sgranate, fraseggio eloquente. Ogni tanto si sente qualche piccola imprecisione e l’interpretazione scenica è da rivedere, ma sicuramente si tratta solo di lasciare tempo alla maturazione.
Riesce anche il Faraone di Alessandro Abis, pure proveniente dalla scuola di Alberto Zedda, seppur la parte appare un po’ troppo acuta per la sua vocalità. La tessitura lo mette talvolta in difficoltà, ma riesce ad aggirare il problema con grande stile, grazie alla conoscenza dei propri mezzi e di ciò che riesce ad affrontare. Presumibilmente sarebbe stato un ottimo Mosè.
Silvia Dalla Benetta, ospite regolare al Festival Rossini in Wildbad, veste i panni della regina Amaltea, ruolo ingrato poiché intriso di una lunghissima serie di recitativi, ma l’esperta cantante lo eleva a personaggio protagonista ed ottiene un meritato successo personale. La voce estesa, ben proiettata e dal timbro importante si impone nei pezzi d’assieme; il carattere e l’accento drammatico emergono nei recitativi e nel quartetto; ma è con “La pace mia smarrita” – mutuata dall’aria della regina Amira “Vorrei veder lo sposo” da Ciro in Babilonia – che mostra appieno le sue qualità armoniche, il saper legare i suoni, controllare il fiato e sgranare agilità con estrema precisione.
Annunciato indisposto, Federico Sacchi è un Mosè convincente nell’interpretazione scenica, fatta di un personaggio severo e fortemente autorevole che pare uscito da un dipinto di Guido Reni, ma spesso opaco e in difficoltà nel canto.
Più che adeguati i due tenori di contorno, l’espressivo Marco Mustaro nei panni di Mambre e il luminoso Matteo Roma in quelli di Aronne. Corretta ma poco lucente l’Amenofi di Ilaria Ribezzi.
Lo spettacolo di Lorenzo Maria Mucci è costruito su di un modesto ma efficacissimo – quanto ecologico – impianto scenico a cura di Josè Yaque e Valentina Bressan realizzato da Officina Scart di Waste Recycling Gruppo Herambiente. La parte fotografica, anche grazie ai bei costumi disegnati dagli stessi scenografi, è molto piacevole. Il lavoro di regia è invece un po’ troppo semplicistico, pressoché fatto di ingressi, uscite e piazzamenti; mancano invece movimento e gestualità studiati sul gruppo – quel poco è lasciato ai singoli interpreti e si notano le differenze – oltre alle controscene che in certi momenti avrebbero incalzato la vicenda, invece sostenuta solo grazie a direttore e solisti. Pure poco incisive le luci di Michele Della Mea, che sono sufficientemente efficaci viste nel loro insieme, ma talvolta lasciano i protagonisti al buio in proscenio, oppure restano per molto tempo fisse non andando a creare quella maggiore suggestione di cui invece un allestimento così sobrio avrebbe bisogno.
Guillaume Fratti
PHOTOS © Finotti