Review: AIDA al Metropolitan Opera di New York, diretta dal M° Daniele Rustioni con Krassimira Stoyanova protagonista.
© DiBartolocritic
Le operone verdiane in trasferta negli States sono sempre un’incognita. Pericolo di ipertrofia scenica con relativa carenza sul versante dell’italico, adeguato gusto musicale.
L’Aida è una trappola mortale, a questo proposito. Può diventare un mattone indigeribile, nonostante i turchesi e gli smalti brillanti su fondo di pietra uso Abu Simbel, scolpiti e decorati fino all’ultimo geroglifico.
Dunque, al Metropolitan Opera in New York, la ben nota messa in scena sontuosa di Aida, il 6 aprile 2017 è tornata sul palcoscenico, con conseguente attesa dell’orecchio ipercritico italiano. Eccoci, ci siamo: adesso stiamo a sentire chi hanno messo dentro quei meravigliosi costumi di Dada Saligeri.
S’inizia con un Radames che debutta al Met proprio con quest’opera. I primi palpiti trepidanti di cuore italiano sono per lui. Il tenore Jorge De León, però, proprio non sembra essere un Radames autorevole, dal punto di vista vocale. Scenicamente la Director a little’ statica, oleografica di Sonja Frisell, taken from Stephen Pickover, lo frena, ma dall’altra la voce dovrebbe dispiegarsi, come quella di chi lo ha preceduto indossando gli stessi ori e bronzi. Ma la voce de De León non decolla, se non nei concertati. Lì, non si sa per quale strano accadimento, riesce a sovrastare tutto il cast, coro compreso. Allora questi acuti ingolati? Un vero peccato. Ci si aspetta che li liberi dal fondo di un’ugola che ha un discreto colore ed evidentemente anche una proiezione di tutto rispetto. Impostazioni errate, purtroppo, accentuate poi da una “S” che diventa “T”, per un difetto di pronuncia…Ora, questa imperfezione naturale nel parlato, trascinata, ovviamente, nella dizione del canto, la si poteva perdonare al meraviglioso Radames di Nicola Martinucci. Ma qui, “Un trono vicino al Tol”, proprio non ha avuto granchè fascino, neanche nell’acuto finale, che ha seguito la tradizione, senza rispettare i pianissimo, addirittura quattro, nonché il “morendo” definitivo , che Verdi scrisse (esecuzione di matrice peppiniana pressoché impossibile, se non, forse, in falsetto) e sui quali tanti tenori hanno sbattuto la testa e rischiato la carriera.
Ciò detto, si attendeva Violeta Urmana Amneris…e qui l’attesa era piuttosto serena: la voce della Urmana è strepitosa in entrambi i ruoli, Amneris e Aida, ma meglio in Amneris. Al Met dunque ha sfoderato uno squillo degno dei tempi d’oro della Cossotto, con gravi anche molto ben messi e tutto il resto al proprio posto. Pericolo scampato, allora, gradimento palese in questa parte che è fondamentale nell’opera.
Giunge dunque Aida, Krassimira Stoyanova. Un po’ di palpitazione dello spettatore all’ingresso, qualche stridore nella zona acuta per cominciare, qualche grave un po’ affondato con una certa violenza tecnica per scurirlo…ma un crescendo, nel corso dell’opera. Una voce che sembra potenzialmente chiara, ma che è invece già conosciuta per essere robusta e forte, ben strutturata e dunque in grado di sostenere la parte, anche se, forse, non è per lei quella ideale. Sospiro di sollievo, dunque, e positivo apprezzamento per le italiche aspettative, fanatiche di un’eroina verdiana cara, difficile come poche e di tradizione che dire illustre è dire poco.
Gli scogli principali superati, non ci si poteva aspettare dall’Amonasro by George Gagnidze, sempiterno Scarpia, che una prestazione, oltretutto già collaudata nella stessa produzione, degna della sua fama e della sua mole.. Una voce gigantesca, che, se modulata con più gusto, potrebbe essere eccellente in ogni parte, a patto di diversificare i personaggi…
A little’ troppo vibrante ormai, in senso negativo, il Ramfis di quel celebre James Morris che debuttò nel ruolo al Met nel 1971; niente di eclatante gli altri interpreti, ma facciamo finta che sia andato tutto bene.
Una nota di lode al Chorus del teatro newyorkese. Gran bella compagine, molto ben istruita da Donald Palumbo e molto bene in parte. Coloriti splendidi, forti giusti, fortissimi quando occorresse. Mica altra barriera da poco superata.
Ma non si è ancora parlato della direzione d’orchestra, che nella produzione si è alternata con quella del M° Marco Armiliato. Solo per il gusto di tenerla per ultima e sottolinearla particolarmente, perchè era ottima: in questo caso, sul podio il trentaquattrenne Maestro milanese Daniele Rustioni, che ha galoppato con sicurezza da esperto cow-boy nel deserto egizio, con competenza, tempi stretti, dinamiche italiane, cura dei dettagli, orchestrona del Met a tutto campo, ottima e abbondante, ma senza fare troppo rumore: producendo “suoni”, quelli giusti, anche nel clangore degli ottoni. Ottimo il sostegno dato agli interpreti. I giornali statunitensi lo hanno definito una “stella nascente”. Senza dubbio da sottolineare il suo ruolo fondamentale nella riuscita dell’intera opera, con un pizzico di orgoglio campanilistico per la sua italianità.
Che dire se non che il pubblico fosse in visibilio? Più volte applausi anche a scena aperta e non solo per la marcia trionfale, che è stata veramente degna di questo nome, soprattutto musicalmente a causa della suddetta staticità della regia (i cavalli in scena fanno sempre effetto, però), che si è ripercossa anche nei ballabili, coreografati da Alexei Ratmansky; ma trionfo in sala anche per molte altre parti dell’opera, che si sono dimostrate di grande pregnanza.
Dunque l’orecchio di gusto italiano ha goduto una splendida serata musicale, senza privarsi di associare l’occhio all’ascolto, perché i colori complementari delle scene di Gianni Quaranta, abilmente giocate anche sui toni dell’ocra, del giallo, dei bruni, dei turchesi e verdi, opportunamente illuminate da Gil Wechsler, erano anch’esse uno spettacolo. Faraonico, questa volta è il caso proprio di dirlo.
© DiBartolocritic
PHOTOS © Metropolitan Opera | Marty Sohl