DON CARLO in cinque atti al Teatro alla Scala di Milano nuova produzione —
Review by Lucas Franceschini —
Milano, 1 febbraio 2017
Ritorna al Teatro alla Scala l’opera Don Carlo par Giuseppe Verdi dans nuovo allestimento di Peter Stein, creato al Festival di Salisburgo nel 2013 e recentemente acquistato dal teatro milanese, mettendo probabilmente “in cantina” il precedente spettacolo (2008), non particolarmente entusiasmante, di Stéphane Braunschweig.
Don Carlos, questo il titolo originale, fu composto per l’Opéra di Parigi e rappresentato l’11 marzo 1867, è da considerarsi il capolavoro operistico assoluto di Verdi o da collocarsi nel ristretto elenco del vertice creativo. Sgombriamo subito e sinteticamente un aspetto importante. Tutti i soggetti dell’opera sono personaggi storici realmente esistiti, la vicenda però è stratta dal dramma storico di Schiller, il quale non è fedele agli eventi reali, il romanzo s’ispira alla storia per cerare un racconto molto affascinante. Anche Verdi e librettisti non si sono posti il problema della veridicità storica, perché giustamente hanno trovato più coinvolgente il romanzo per la stesura della drammaturgia.
Sarebbe prolisso elencare le diverse e molteplici versioni e edizioni dell’opera, la quale come predetto fu composta in versione grand-opéra in cinque atti con libretto in francese. La prassi vuole che per le riprese in altri paesi il testo fosse tradotto nella lingua locale. Inoltre, Verdi ritornò sullo spartito con ripensamenti, tagli, riduzioni e rielaborazioni per le diverse riprese in città italiane. L’edizione scelta dal Teatro alla Scala per l’odierna rappresentazione si riferisce alla prima parigina del 1867, nella traduzione ritmica italiana di Achille De Lauzières e Angelo Zanardini e senza balletto del III atto, e si rifà alla prima esecuzione italiana di questa versione rappresentata a Bologna il 27 ottobre 1867.
Lo spettacolo, con la regia di Peter Stein, è soprattutto sviluppato sulla definizione dei personaggi nel loro più intimo animo a scapito del ruolo sociale. L’idea trova soluzioni molto azzeccate affiancate ad altre più banali, e solo quanto c’è la presenza di un cantante-attore di rango le idee del regista trovano significativa espressione. Accade sovente con un Filippo II statuario e corroso dal dubbio, e un’Elisabetta rassegnata. Cito come esempio: la gestualità da manuale di Furlanetto nel monologo e successivo duetto con il Grande Inquisitore, o la scena successiva quando la regina sviene ed Eboli si precipita a soccorrerla ma è prontamente fermata dal re, sarà lui stesso a sollevarle il capo accarezzandolo. L’autodafé mancava di solennità sinistra, ed era discutibile il corteo delle delegazioni delle colonie dell’impero. Di forte impatto drammatico erano invece la scenda del carcere e tutto l’atto V, con rilevante drammaturgia. Il tallone d’Achille dell’allestimento era l’inizio dell’atto II con la scena dello scambio della maschera tra Eboli ed Elisabetta e successivo terzetto, ambientato in un illogico giardino con tendone e piccole passatoie, che invece di rendere cupo e drammatico il momento parafrasavano il farsesco.
Ferdinand Wogerbauer, scenografo, ha mano lieta alterna firmando una pertinente e austera corte all’Escorial, un primo atto “nebbioso” di Fontainebleau, scivolando in altri punti, atto III e gabinetto di Filippo, sempre di maniera ma con poca attendibilità. Bellissimi i costumes d’epoca di Anna Maria Heinreich, cromatici e di forte impatto visivo, pertinenti le luci Joachim Barth.
Moto rilevante la prova di Myung-Whun Chung, maestro concertatore, che sceglie una lettura impostata sul romantico, ponendo l’accento sul dramma intimo dei singoli piuttosto che sulla cornice storica. Una lettura in crescendo, che trova negli ultimi due atti una fusione buca-palcoscenico di ottimo rendimento, non mancando un controllo su colore e dinamiche. Sarebbe stato più consono qualche slancio più accentuato nella canzone del velo e nell’autodafé, ma sono piccoli dettagli. L’orchestra era in piena sintonia con il direttore e in ottima forma, e vorrei sottolineare l’assolo degli ottoni, passo difficilissimo, perfettamente calibrato e meraviglioso. Altrettanto si può affermare per la prestazione del coro, diretto da Bruno Casoni, sempre puntuale e di grande musicalità.
Il cast scritturato per l’occasione era composto di nomi molto celebri, ma con qualche distinguo.
Francesco Meli, Don Carlo, ha sfoggiato la sua consueta voce squillante e molta bella. Molto convincente nel fraseggio e nell’accento, ha dimostrato qualche lieve problema nel settore acuto, e il suo canto èsempre “aperto” come negli ultimi tempi usa a fare, ma nel complesso una prova positiva.
Di tutt’altra impostazione la prova di Ferruccio Furlanetto, et Philippe II veramente vissuto, variegato nell’interpretazione, austero e altezzoso alternato a momenti di sofferenza e umanità. La voce è sempre importante, anche se dopo anni d’illustre carriera qualche attacco non è sempre pulito, ma l’accento è superbo e l’esecuzione del monologo è stato uno dei momenti più altri della serata.
Note meno positive per Simone Piazzola, Rodrigo, il quale mi ha lasciato letteralmente sbigottito nel costatare il ridimensionamento del volume. La voce del cantante era troppo esigua e di difficile ascolto in molti suoi momenti, e la perplessità è resa ancor più evidente nel confronto con sue occasioni nel recente passato. Spero trattasi di caso isolato poiché il giovane baritono è una delle promesse più interessanti di questi ultimi anni. Inoltre, il canto è raffinato, molto curato nel fraseggio e con grandi proprietà d’accento.
Eric Hafvarson, Gande Inquisitore, sostituiva il previsto Orlin Anastassov e nel complesso era accettabile anche se la sua voce risulta oggi piuttosto logora e greve mentre il personaggio è perfettamente riuscito.
L’Élisabeth par Krassimira Stoyanova è interpretata con grande regalità e la voce, dal timbro bellissimo, sempre precisa e usata con grande musicalità e finezza interpretativa. Sicura in tutte zone sia gravi sia acute avrebbe potuto trovare qualche accento interpretativo più vigoroso piuttosto che appoggiarsi a un canto sempre corretto ma insolitamente manierato.
Non convince la principessa Eboli par Ekaterina Semenchuk per caratura vocale che al confronto con la Stoyanova era addirittura più leggera. Anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un soprano corto e non particolarmente forbito nelle agilità, oltrepassare il campo del mezzosoprano. Dobbiamo riconoscerle un’interpretazione con esiti convincenti ma molto inferiori alle attese quelli vocali.
Brava Theresa Zisser nel ruolo del brillante Tybalt, molto professionali il Frate di Martin Summer, il Conte di Lerma e araldo di Azer Zada Et le voce dal cielo di Céline Mellon.
Una menzione particolare merita il gruppo dei Deputati Fiamminghi, Solisti dell’accademia della Scala, per l’omogeneità espressa nel loro intervento e la raffinata compostezza di esecuzione. In ordine di locandina erano: Gustavo Castillo, Rocco Cavalluzzi, Dongho Kim, Viktor Sporyshev, Paolo Ingrasciotta e Chen Lingjie, quest’ultimo allievo del Conservatorio Verdi.
Unico neo dello spettacolo i troppi intervalli che hanno determinato una durata di oltre cinque ore. Al termine non sono mancati applausi convinti a tutta la compagnia e un’ovazione all’uscita del maestro Chung.
LUKAS FRANCESCHINI
PHOTOS © TEATRO ALLA SCALA | BRESCIA e AMISANO