di Natalia Di Bartolo – Il capolavoro di Vincenzo Bellini inaugura la Stagione Lirica 2025 al Teatro Massimo “Bellini” di Catania.
Norma è un titolo “sacro” a Catania e ai catanesi e, come tale, atteso, desiderato, sperato dagli appassionati che popolano il Massimo Teatro etneo.
Il 18 gennaio 2025, alla presenza di alte autorità politiche e di numerose personalità, il teatro dedicato al divino Bellini ha risuonato ancora delle sue note, all’inaugurazione della Stagione Lirica 2025 e all’apertura delle celebrazioni del centonovantesimo anniversario della morte del compositore.
Il capolavoro, nell’Edizione critica di Casa Ricordi, a cura di Roger Parker, è stato affidato alla bacchetta del Maestro Leonardo Sini, classe 1990. Il Concertatore e Direttore ha dato prova di una maturità già capace di governare il nutrito organico orchestrale che popolava il golfo mistico, oltre che dare sostegno agli interpreti. Ottima, dunque, l’orchestra stabile catanese, alla guida della quale il Maestro Sini ha mostrato capacità di introiezione di un evidente, insistito ascolto dei Grandi che lo hanno preceduto, ma anche di un intervento personale che ha voluto dare un assetto marziale alla sinfonia, a discapito delle dinamiche un po’ appiattite, e creduto opportuno modulare le atmosfere dell’opera fino a giungere, nel finale, a scegliere tempi rallentati e dare risalto ad un’atmosfera romantica.
Nel ruolo del titolo, al debutto, il soprano Irina Lungu, che sostituiva, al primo cast, la indisponibile Jessica Pratt. La prova era improba e certo non supportata dall’eterno, errato “confronto” con voci storiche. Il bel colore vocale del soprano, notato nella parte di Beatrice Fiorica ne “Il Berretto a sonagli” di Marco Tutino, da Pirandello, visto e recensito in prima mondiale sempre a Catania nel 2024, nonché lo stile di canto “naturale”, moderno ed espressivo fino al verismo che lo caratterizzava, si disperdevano qui in una parte ben diversa, di Bel Canto, in cui è necessario non “intubare” le vocali per distribuirle in pari posizione al fine di dotarle tutte degli stessi armonici, rischiando il calo di tono; e invece dispiegare un canto misurato e quanto più possibile non artefatto, di proiezione ragguardevole, con una “lama” che oltrepassi di gran lunga il golfo mistico ed esprima ogni sfaccettatura del personaggio, che algido non è.
Antonio Poli, nella parte di Pollione, è un tenore dal timbro robusto, ma dalla zona acuta problematica e dunque dai sovracuti di non facile emissione; tuttavia ha un bel colore ed una buona tensione drammatica, ma ha cantato solo un Do sovracuto. Gli altri sovracuti, di tradizione o meno, sono mancati all’orecchio dell’appassionato. Cantare la parte di Pollione con i sovracuti non è una scelta del singolo cantante, ma requisito imprescindibile della vocalità belliniana. Anche stimbrare i piano, come il Poli ha accennato, non appartiene alla vocalità belliniana. Allora, se lo si vuol fare, forse sarebbe meglio optare per l’inverso e seguire l’esempio di Domenico Donzelli, primo Pollione della storia, che cantava i sovracuti in falsetto.
Il soprano Elisa Balbo, anch’ella al debutto in Bellini a Catania, ha dato voce ad una Adalgisa flessuosa e dallo squillo intenso, espressiva e drammatica, molto ben in parte e ovviamente dominante per qualità nei duetti; mentre l’Oroveso di Carlo Lepore ha dispiegato una voce dalla resa ondivaga. Corretti i comprimari, efficace il Coro, diretto da Luigi Petrozziello.
La regia di Hugo de Ana ha dato adito ad un’interpretazione del capolavoro con richiami neoclassici, anche tramite proiezioni di capolavori dell’Arte di primo ‘800, che non si ritrovavano, però, né nel canto né nella concertazione e direzione; con i suoi bei costumi d’ispirazione napoleonica per gli interpreti, ma anch’essi variegati per gusto e cronologia, grazie ai quali il Coro di donne sembrava ispirato ai dipinti di Alma Tadema. La scenografia era solenne e di collocazione anch’essa indefinita, tra basi di enormi colonne scanalate; il tutto privo totalmente di richiami ai Druidi, alla sacra Quercia, se non in una simbolica caduta di foglie autunnali, al vischio e allo scudo d’Irminsul, il cui suono, nella parte finale dell’opera, è stato accomunato all’inaspettato scoppio di un petardo ai piedi di Norma. Richiamo, forse, a una sorta di “magia celtica”, che però non si confà certamente né alla figura della sacerdotessa, né alle orecchie dello spettatore. Finale a fil di lance, insolito e cruento.
Applausi complessivi sentiti da un teatro decisamente stracolmo.
Natalia Di Bartolo
Foto di Giacomo Orlando