RIGOLETTO a Catania – Recensione

di Natalia Di Bartolo – Il capolavoro verdiano al Teatro Massimo “Bellini” di Catania, con la direzione di Jordi Bernàcer e la regia di Leo Nucci.


Allo spettatore esperiente, come all’appassionato, piace emozionarsi. Anzi, al musicologo piace il doppio, perché poi , se anche critico, è suo compito trasferire per iscritto le emozioni provate. Non ha importanza se quella da recensire sia per lui/lei  l’ennesima rappresentazione di un’Opera celeberrima. Anzi, l’esperienza e la passione non sfumano mai nell’abitudine, ma si acuiscono nel cercare mille e mille riscontri nella singola messa in scena di un capolavoro.

Nel caso del “Rigoletto” verdiano, alla première del 29 ottobre 2024 al Teatro Massimo Bellini di Catania, a prescindere dalle difficoltà che hanno preceduto la rappresentazione, con la sostituzione del protagonista all’ultimo minuto, non solo il musicologo, ma anche lo spettatore appassionato hanno notato come si sia creato fra il pubblico, durante la recita, un vero e proprio acceso scambio di opinioni e di “giudizi”, più o meno fondati e attendibili. Raramente chi scrive aveva assistito alle discussioni di una platea così variegata come è oggi quella delle prime del teatro etneo, che ha dismesso, anche per ovvio ricambio generazionale, se non smoking e abiti da sera luccicanti, la competenza severa e un po’ algida che da sempre lo ha caratterizzato. Dato positivo, in fondo, perché spia di rinnovato interesse e pretesa d’eccellenza. Il musicologo, però, ascolta, sorride e pensa per sé.

E allora, da rilevare, innanzitutto, la presenza del Maestro Jordi Bernàcer alla concertazione e direzione d’orchestra, non nuovo al podio catanese né per le opere né per i concerti. Una bacchetta decisamente “sinfonica” che, trasferita alla direzione di un’Opera,  resta se stessa, ovvero imperiosa e inflessibile. Il M° Bernacer, dotato di ottime capacità direttoriali, ha affrontato la partitura verdiana con decisione e personale lettura dei tempi, accelerandoli soprattutto al primo atto. Tempi così spediti e volume orchestrale di rilevante entità, come quelli voluti dal Maestro spagnolo, non possono che creare una sorta di “barriera” tra la buca e il palcoscenico, nel momento in cui il Direttore voglia far prevalere la propria interpretazione agogica, che non sempre coincide con quella degli interpreti. Riconoscere al M° Bernàcer una cura delle parti cruciali per i cantanti è, però, doveroso, anche se, pure in questo caso, si rilevava un prevalere netto del “diktat” direttoriale nel gusto, nei tempi e nelle dinamiche.

Rigoletto era il celebre baritono georgiano George Gagnidze, che ha cantato con la correttezza della sua grande esperienza di palcoscenico e che ha eseguito, con sottesa complicità, alcuni vezzi vocali e scenici del regista dell’opera, il collega Leo Nucci; inoltre, data la sostituzione del protagonista all’ultimo minuto, si è rilevata come altamente professionale la sua capacità di celere adattamento alle condizioni dettate dal golfo mistico. Niente di più, niente di meno, però: l’imponente baritono di fama internazionale, già da chi scrive più volte visto e recensito, soprattutto a Vienna e nei panni di Scarpia, non ha derogato alle proprie abitudini di correttezza e di capacità, ma, come talvolta gli accade, non ha ingranato, purtroppo, la marcia dell’emozione.

La Gilda della prima, l’albanese Enkeleda Kamani, che ha tenuto a rilevare nel corso di un’intervista, di essere stata la Gilda dell’ultimo Rigoletto sulla scena del regista Nucci, non era da meno quanto a carenza d’emozione. Voce graziosa e sottile, non particolarmente dotata nella zona acuta, soffriva però anche lei, a favore della tensione tecnica, di una sorta di mancanza di empatia tra i colleghi e col pubblico. E il pubblico, come nel caso del protagonista, se ne è accorto.

Diverso, ma contenuto dalla direzione imperiosa, lo spirito tutto catanese di Ivan Magrì, il Duca di Mantova, che con voce adatta alla parte ed adeguate capacità, ha dovuto sottostare a tempi che non sempre gli erano congeniali. Dunque, anche il suo personaggio è rimasto soltanto un’eco del Duca, una presenza e una voce che avrebbero potuto dare molto di più anche scenicamente.

“Sanza infamia e sanza lodo” lo Sparafucile di Ramaz Chicviladze e la Maddalena di Elena Belfiore, corretto il Monterone di Luca Dall’Amico, come corretti tutti gli altri interpreti ed il Coro diretto da Luigi Petrozziello.

E si giunge, ovviamente, a ciò che era il grande, vero richiamo della serata: la regia di Leo Nucci.

Capace di essere diventato “Rigoletto” per eccellenza nell’immaginario del pubblico, per aver cantato questa parte baritonale fino all’estremo della carriera nei teatri di tutto il mondo, per chi ben lo conosce sulla scena, il Nucci aleggiava anche nell’impostazione di alcune espressioni cantate. Inevitabile “contaminazione”, come accennato, soprattutto da parte del protagonista, ma anche da parte della sua ultima Gilda. Prova ne sia pure, esattamente come accadde anni fa al Nucci alla Scala con l’allora giovanissima Nadine Sierra, il bis d’effetto, a sipario chiuso, del duetto finale padre-figlia del secondo atto.

Ma non sempre le capacità musicali sul palcoscenico si riversano nelle capacità registiche e contribuiscono a produrre la tanto decantata “emozione”. E’ pur vero che lo stesso Nucci, in un’intervista, aveva tenuto a sottolineare di non essere propriamente un regista, ma di aver avuto contatti e scambi con decine di registi durante la sua lunghissima carriera di cantante; però questo può non essere determinante nel piglio complessivo della messa in atto della regia di un’opera intera; anche se un’analoga messa in scena del Rigoletto aveva preceduto quella catanese al teatro greco-romano di Taormina nel 2021, con lo stesso baritono emiliano che non solo ne firmava la regia, ma era ancora nel ruolo del titolo.

La carenza di profondità delle scene di Carlo Centolavigna, poi, con i costumi informi di Artemio Cabassi e illuminate da Bruno Ciulli , che limitavano al proscenio e poco più la presenza di tutti gli interpreti, faceva sì che la regia scaraventasse le voci di tutti in platea, probabilmente anche a contrasto della barriera sonora che si levava dal golfo mistico; Coro maschile compreso, manovrato dal Nucci come un’entità unica e compatta, forse anche in memoria di qualche coro verdiano “da complotto” (venivano in mente i congiurati contro Banco nel Macbeth). Tutto l’insieme registico della rappresentazione, però, in conclusione, anche nella staticità degli interpreti, oscillava tra la professionalità dell’esperienza e l’incertezza, fatta certezza dallo stereotipo.

Per tornare a ciò che all’inizio si accennava, quindi, la perplessità e le discussioni “del” e “fra” il pubblico di chi sia capace di emozionarsi con detto stereotipo (da non confondersi mai con la sempre lodevole “tradizione”) e di chi, invece, gli preferisca altra qualità d’approccio musicale e scenico, si sono protratte lungo tutta la serata, facendo comunque prevalere, tra gli atti (ripristinata registicamente anche la tradizione dell’applauso fra un atto e l’altro) ed al finale, la fazione dei plaudenti ad oltranza e decretando il successo dell’intera rappresentazione.

Natalia Di Bartolo

Foto di Giacomo Orlando