VEZZI E MALVEZZI: La collezione di registrazioni d’epoca

– Natalia Di Bartolo coglie “lo spettatore esigente” in un momento di crisi d’ascolto, in uno dei suo articoli umoristici della divertente serie.


Il nostro amico spettatore esigente, da sempre, ama assistere all’Opera a teatro. Egli, però, purtroppo, allergico anche al volo di una farfalla sotto il naso, non avendo trovato un medico che lo esentasse dal vaccinarsi contro la pandemica sventura, recluso da tre anni in casa, si è dedicato al riascolto dei pezzi forti della sua sacra collezione di registrazioni.

Dunque ha ascoltato e riascoltato già un miliardo di volte l’intera collezione di edizioni eseguite da interpreti ancora sulla breccia, preferendole decisamente a quelle d’epoca; ma, esaurite ormai perfino le scorte, non esigue, della perseveranza nel riascolto, decide di mettere mano alle registrazioni più polverose, quelle che non ascolta quasi mai, quelle con “interpreti d’epoca”. Dunque, senza neppure spolverare, scartabellando nello scaffale benedetto della collezione di videocassette, ha colto al volo un Trovatore, con tanto di Pavarotti, Marton e Milnes, direttore l’allora immarcescibile Levine, 1988, al Metropolitan di New York.

Assiso sulla poltroncina del soggiorno, ma già indisposto dalla qualità della registrazione, comincia subito ad agitarsi: applausi su applausi, mentre Eva Marton non esegue disinvoltamente la cabaletta del terzo atto “Tu vedrai che amore in terra”, che segue il celeberrimo cantabile “D’amor sull’ali rosee” e va via di scena. Nessuno se n’è accorto fra gli spettatori del Met? La Marton aveva una licenza speciale?

Lo spettatore esigente resta perplesso e riflette sul fatto che, morto Pavarotti, viva Pavarotti recorded, dotato ormai anche di stella sulla Hollywood Walk of Fame, e certamente, lo ammette, ancora da ascoltare e riascoltare con religioso rispetto.

Ma, se per assistere in video ad un Trovatore con il compianto Big Luciano ci si deve sorbire non solo un orrido Ferrando, che nel primo atto fa il cenno di raccogliere le ceneri del bambino bruciato dal fuoco che arde al centro del palcoscenico e di buttarle via, come se avessero arrostito una coscia di tacchino, anziché una creatura innocente; ma soprattutto una Marton assolutamente fuori parte, nonostante gli innegabili pregi della voce, meglio spegnere il televisore e conservare nuovamente nell’apposito reliquiario la storica videocassetta il cui nastro ancora riesce a girare imperterrito nell’insostituibile lettore VHS ormai fuori commercio da una vita.

“Eva Marton: – rileva ancora – gran “sopranone drammatico”, voce scura, potente, ben sostenuta, ben emessa, ma di estensione regolare e che, già ad un trillo, entra in crisi: le agilità non sono mai state il suo forte. Eppure, l’aver “taciuto” la cabaletta verdiana non ha inciso sul fatto che il suo cantabile “solitario” fosse applauditissimo e che, alla fine, venisse portata ugualmente pressoché in trionfo. Allora? – brontola fra sé e sé digrignando la protesi – La “filosofia” di tali accadimenti tutt’altro che casuali, potrebbe essere racchiusa in una semplice frase: “Jamais cambiare il soprano designato: cambiamo l’Opera, invece!”.

E non ha torto, il nostro amico esigente, perché, fu proprio così che il soprano “saltò” la cabaletta. Operazione arbitraria, per la quale Peppino, almeno per un mese, si rigirò nel sacello, ma ignorata da un pubblico esaltato all’inverosimile dalle prodezze di Pavarotti, tanto da osannare un Milnes ormai attempato che, nell’intonare “Leonora è mia”, per farsi sentire già da metà platea avrebbe avuto bisogno di due microfoni e, soprattutto, la suddetta Marton, che, di conseguenza, pareva emanasse da tutti i pori un’espressione assimilabile a: “IO sono la Primadonna!.

Il nostro amico si risiede sfiduciato sulla poltroncina del soggiorno e non nasconde una lacrima che gli fa capolino da sotto gli occhiali. Egli, affogando nel mare della propria infinita collezione, non ricordava che la preziosa videocassetta prescelta contenesse anche la suddetta questione del “salto della cabaletta”. Sì, è vero che Levine porgesse ai cantanti l’accompagnamento su un piatto d’argento, assecondandone le necessità e camuffandone i difetti, ma la tanto decantata “filologia” dov’era andata a finire?

A questo punto, la lacrima si dissecca all’angolo dell’occhio destro e subentra nell’appassionato ascoltatore un moto di ribellione: “Probabilmente si tratta anche di un modo d’intendere il “prodotto musicale” da eseguire, – esclama, parlando con se stesso – tenendo conto del gusto di un pubblico americano che ancora oggi spesso cronometra la durata degli acuti e che si lascia blandire anche solo da una cadenza ben eseguita”.

Sa di diventare impietoso ed omofobo, ma la passione per la filologia finisce sempre per travolgerlo. Allora si alza di nuovo, riapre il reliquiario e preleva un’altra edizione storica dell’opera verdiana, sempre in videocassetta d’epoca: “Ora sentiamo questi, allora: Sutherland e Bonynge. Si cambia continente!”

Riavvia l’armamentario altamente tecnologico, ma si rende subito conto che, cambiando l’ordine dei fattori, a quanto pare, il prodotto cambia, ma in peggio: nello stesso periodo, in Australia, una Sutherland ancora ascoltabile torturava sempre il povero Trovatore, riscrivendo (o facendosi riscrivere dal coniuge) ed eseguendo con trionfale successo, inedite variazioni proprio nella cabaletta che la Marton aveva “saltato”. Una seduta spiritica aveva richiamato Verdi in vita e il marito le aveva riscritto la parte per intero, inventandole cadenze e sovracuti degni della migliore Regina della Notte? Sembra che resti un mistero (doloroso) per il nostro amico, il quale, invece, sa benissimo quale sia la risposta, ma preferisce non pronunciarla ad alta voce.

Quasi svellendo la povera videocassetta dall’apparecchio ormai traballante che, se potesse parlare, chiederebbe pietà, lo spettatore esigente, esasperato, decide di tornare in Europa, andando ancora più indietro nel tempo…Ma non ha riflettutto sul fatto che la sua collezione, non più adesso di videocassette, ma di dischi in vinile, è popolata di registrazioni di Opere anche di autori francesi e tedeschi. Il che non gli dispiace affatto, ma, nella foga, non lo fa riflettere su un altro inveterato, annoso problema: il malvezzo imperdonabile dei “libretti tradotti”; e si ritrova ad ascoltare una registrazione primi anni ’70, in cui Carmen, la gitana, canta in italiano, con voce stentorea: “L’amor è uno strano augello…”. Un incubo!

Questa volta, salta letteralmete dalla poltroncina e si rivolge ad autore meno rappresentato e dunque presumibilmente registrato in lingua originale. Ma si accorge che perfino Meyerbeer non era era scampato a questo disastro verbal-musicale…e, allegato al disco de “Gli Ugonotti” (già il titolo in italiano lo fa fremere) si ritrova anche lo spartito di “O beau pays de la Turaine”, di cui la sua nipote prediletta, esigente come lui, che voleva studiarlo non molti anni prima al Conservatorio, si era precedentemente dovuta procurare il testo originale in francese, con il quale aveva poi lavorato di bianchetto sullo spartito, cancellando il testo in italiano.

Fatto volare, tipo freesby, senza neanche averlo poggiato sul piatto del giradischi, il disco di Meyerbeer, che approda, miracolosamente intatto, sul tavolo da pranzo, torna al reliquiario dei vinili, ma s’imbatte inorridito in un’ “Aida” cantata in tedesco. Il Führer, certamente, gongolava, nell’ascoltare, fra gli altri, Richard Tauber, il tenore prediletto di Franz Léhar, un RadameSS eccellente, soprattutto quanto a pronuncia ariana.

Tauber…Riaffiora in soggiorno dalle brume del tempo e dai bioccoli di polvere…e vi ripiomba immediatamente, con un moto di orrore da parte dello spettatore esigente: L’Aida in tedesco?! E quel Tauber, un tenore “da operetta”! Operetta colta, non lo si mette in dubbio, ma pur sempre Operetta, che viene “scaraventato” nei panni di un improbabile Radames e ne restano vestigia sonore dignitose, quanto ad emissione, ma indecenti quanto a traduzione! Il disco viene archiviato di nuovo alla velocità della luce.

Ormai sull’orlo della disperazione, il nostro amico ha un moto di campanilistica ribellione: se proprio deve ascoltare qualcosa di “tradotto”, ecco qui, allora, tra una ragnatela e l’altra, un Gigli in falsettone che flauta in italiano tutti i piano della Manon di Massenet!

Ma, nel prelevare il disco ancora col ragno penzoloni, si accorge che accanto ha, chissà quando, conservato e poi dimenticato un’attempata edizione de “Les pecheurs de perles” di Bizet! Titolo in francese! Oh gioia! E, tenendo nella sinistra il disco di Gigli, si affretta a sostituirlo con il prezioso ritrovamento, restituendo la pace anche al ragno.

Si siede sulla poltroncina, beato: finalmente un’opera in registrazione d’epoca in lingua originale. Aziona il braccetto del giradischi, poggia con religiosa accortezza la puntina sul disco…Ma in quell’attimo, il suo sguardo si posa sul fodero del vinile e legge’ sotto il titolo: “Giuseppe Di Stefano”.

La mano gli trema, la puntina striscia maldestramente sui solchi, con uno stridere sinistro, e coglie, fermandosi a metà della registrazione, un Di Stefano che canta Bizet con una pronuncia francese-siculo-italiana da sincope.

Gli occhiali saltano dal naso al nostro amico, impallidisce e, ormai disfatto, si accascia sulla poltroncina del soggiorno: “Fra i due mali , si scelga il minore…Però, quale sarebbe? Il tenore italiano che canta l’Opéra Français tradotta in italiano o il tenore italiano che canta l’Opéra Franςais in francese?”

Natalia Di Bartolo © Vezzi e malvezzi

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