TOSCA alla prima della Scala 2019 – Recensioni di Natalia Di Bartolo e di Willliam Fratti – Netrebko, Meli, Salsi, Chailly, Livermore: uno spettacolo sontuoso, presente il Presidente Mattarella –
Visto da Natalia Di Bartolo
L’Opera è Teatro prima di qualsiasi altra cosa. E come tale va guardata, nel suo complesso. I melomani che si attaccano alle sfumature delle voci o ai confronti con divi del passato, adusi magari all’ascolto esclusivamente in disco e che compulsivamente ascoltano in mille edizioni diverse prima di assistere ad un’edizione nuova dell’opera e per giunta spesso in televisione, non comprendono di avere una posizione oltranzista del tutto errata.
Quando la regia, le scene, i costumi sono di basso profilo o stravolgono negativamente il libretto, è giusto “attaccarsi” alle sole voci. Ma quando lo spettacolo nel suo complesso “funziona”, questo è quello che conta, più che la singola resa del singolo cantante, possibilmente pure evitando di cercare il pelo nell’uovo in quel singolo passaggio.
Dunque, dire che vocalmente Tosca al teatro alla Scala, alla prima del 7 dicembre 2019, dedicata a Paolo Grassi nel centenario della nascita, sia stata musicalmente tutta rose e fiori non sarebbe corretto, ma dire che sia stato nel complesso uno spettacolo fuori dal comune è la definizione più azzeccata.
L’Opera è Teatro di altissimo livello, in tutte le sue sfaccettature. Un cantante può avere una voce meravigliosa, ma, se è un gambo di sedano in scena, non lo si può definire un grande cantante. A maggior ragione la primadonna. La primadonna deve avere voce, carattere e presenza. Poi una di queste indispensabili caratteristiche inevitabilmente sovrasterà le altre, ma non le annullerà di certo.
E’ il caso di Anna Netrebko, Tosca in questa edizione scaligera. Donna di straordinaria bellezza, il soprano russo ha il temperamento di una tigre. Adesso ha cambiato vocalità e repertorio, da qualche anno, riprendendo in mano il filo della sua già lunghissima carriera, anche dopo vicissitudini della vita privata, e continuando a trionfare nel mondo. La sua voce, che all’inizio cantava anche l’Opéra Français da soprano leggero, adesso viene emessa da soprano drammatico e ambisce a Turandot, nella quale ha in programma di debuttare prossimamente. Dunque la sua vocalità ha subito negli anni profondi mutamenti, ma è ancora lì, pur avendo perso parte del proprio smalto brillante e volgendo ad un timbro profondo molto accentuato, a dire il vero a volte, in qualche nota grave, un po’ “gonfiato”.
Dunque una Tosca “scura” la Netrebko, ma apprezzabile e soprattutto un’attrice dalla padronanza scenica impressionante. Le si potrebbe far fare di tutto, in scena: la sua disinvoltura in qualsiasi ruolo non fallisce un colpo. Allora, di fronte a tanta perizia, pur facendo un po’ di fatica, si può anche passare sopra ad un attacco di Vissi d’Arte un po’ incerto Oltretutto, ultimamente, ha dovuto rispettare un lungo periodo di assoluto riposo, dunque la sua voce poteva, in questa Tosca, non essere in piena forma. Ma l’acuto del Vissi d’arte è stato un capolavoro. Quando si lancia, ritrova anche lo squillo. Però è umana anche lei: l’emozione gioca brutti scherzi, insieme alla stanchezza di prove estenuanti e di una recita già eseguita per intero nella serata dedicata ai giovani due giorni prima: dopo il pezzo forte del “Vissi d’arte”, forse per un calo di tensione emotiva, ha ripetuto una frase precedente invece di cantare quella giusta; tutto riparato con prontezza, insieme a Salsi ed all’orchestra, senza soluzione di continuità e con infinita professionalità e c’è chi non se ne è accorto.
Al suo fianco, un Cavaradossi che molti aspettavano al varco con intenzioni poco pacifiche: Francesco Meli. Eppure, anche lui, ha dato il massimo. Non gli si perdona la tendenza al falsetto nei piano e pianissimo anche in questa parte, ma “Recondita armonia” è stata molto ben eseguita. E poi, altro caso eclatante, si è immedesimato ed ha recitato, con una perizia da attore consumato: visto e recensito più volte, finora era sembrato ogni volta freddo e inespressivo come un ghiacciolo. Quale Cavaradossi, invece, nonostante l’inadeguatezza del timbro, si è dimostrato credibile e a tratti coinvolgente.
Per la prima volta, in questa edizione di Sant’Ambrogio 2019, però, ha giganteggiato su tutti il baritono Luca Salsi. Il suo Scarpia, è stato magari un po’ carente di sfumature nei piano, un po’ plateale nella perfidia, ma di innegabile efficacia, sia vocale che scenica. Mai apprezzato così tanto neanche lui, sempre visto e recensito più volte. Cattivo quanto basta, il suo Vitellio ha riempito la scena: evidentemente una parte che gli piace e che ha molto ben studiato anche nella recitazione.
Ma tutti, in questa serata, anche i comprimari, l’Angelotti di Carlo Cigni, il Sagrestano di Alfonso Antoniozzi e l’ottimo Spoletta di Carlo Bosi ed il Coro, diretto da Bruno Casoni, erano catalizzati da un quid che si spiega solo con la capacità d’amalgama data dall’orchestra diretta dal M° Riccardo Chailly e dalla regia di Davide Livermore.
Il Maestro Chailly ha scelto l’edizione pucciniana “versione Roma” del 1900 dell’opera, nella nuova edizione critica curata da Roger Parker. Qualche diversità rispetto al consueto, quindi, qualche frase muscale in più, sono balzate all’orecchio del melomane esperto, ma questo dato si è rivelato gradevole. Dunque al terzo atto, per esempio, alla morte di Mario, dopo il grido di Tosca, si è ripreso il meraviglioso motivo di “E lucevan le stelle”.
Tutto da manuale in orchestra, campane originali comprese, a parte un piccolo incidente di percorso, con un attacco e un fermo, poi ripreso, che anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, presente nel palco reale alla serata, insieme alla figlia e ad uno stuolo di personalità della politica e della cultura, avrà perdonato. I tempi erano leggermente dilatati, ma è un modus operandi del M° Chailly, lo sappiamo. Però, quando c’era da “stringere”, eccome se stringeva! Quando c’era da crescere, eccome se cresceva! Gran supporto agli interpreti, dinamiche raffinate, un Puccini solenne, epico quasi, di mano sinfonica e di spirito tragico.
Ma, visti i dati musicali complessivi non del tutto perfetti, sopratutto nel contesto di una prima alla Scala, per tornare all’amalgama, forse in questa prima del 2019 il vero miracolo lo ha fatto il regista Davide Livermore, coadiuvato dalle scene di Giò Forma.
Straordinaria la macchina scenica, dall’inizio alla fine, con effetti girevoli, per cui non erano i protagonisti a muoversi in Sant’Andrea della Valle, per esempio, al primo atto, ma era la chiesa, ricostruita abbastanza fedelmente, che, girando e scorrendo, si muoveva e li collocava in posti diversi.
Corredate da proiezioni e illuminate dalle luci perfette di Antonio Castro, queste scene hanno “contenuto” uno spettacolo che sotto il profilo della regia era raffinatissimo e curatissimo. Solo i costumi di Gianluca Falaschi avrebbero potuto essere più sontuosi e più consoni alla collocazione temporale, che una volta tanto era stata rispettata. A parte la cura con cui ciascun interprete era immedesimato nel proprio ruolo, quel che colpiva era la coesione di tutto l’insieme: la regia di Livermore è stato il collante che ha reso questa Tosca un grande spettacolo.
Strepitoso il secondo atto, con un verismo violento da Grand Guignol nella morte di Scarpia, che sarebbe piaciuto a Sardou. Inquietanti e volatili quelle figurine di suore che vagavano per il palcoscenico: sembravano piccoli spiritelli malefici al servizio del gran cattivo Scarpia. Bellissimi i tableaux vivents del secondo atto, gli affreschi dello studio di Scarpia, che partecipavano emotivamente allo svolgersi dell’azione e che accoglievano poi fra loro, al termine dell’azione omicida, l’immagine sdoppiata di Tosca nell’atto di colpire il tiranno; come se si fosse immortalata anche lei in un dipinto e si fosse nello stesso tempo estraniata da se stessa, rispetto al crimine che aveva compiuto, restando prostrata in un angolo.
Originalissimo anche il palcoscenico che si sollevava e si abbassava parzialmente nei momenti cruciali: al Te Deum del primo atto, lasciando Scarpia da solo, simbolicamente, in basso e il Santissimo Sacramento in alto; nella scena della tortura e al finale, in cui avveniva esattamente il contrario del consueto: Tosca si gettava dagli spalti, ma invece di cadere si librava nell’aria restando sospesa, in un senso di distacco e di libertà dal mondo infame che l’aveva portata a tanto, e tutto il resto sotto di lei sprofondava.
Un insieme che ha suscitato nello spettatore non solo apprezzamento per l’opera, ma emozioni anche visive inattese e confermando, negli applausi finali di gradimento per tutti gli artisti, durati oltre un quarto d’ora, che, come prima si diceva, l’Opera é prima di tutto grande Teatro, fatto non solo di voci e musica, ma di un amalgama misterioso, che gli antichi greci conoscevano bene; tanto da considerare che l’effetto del teatro fosse la catarsi.
Il 7 dicembre 2019, al teatro alla Scala, questo miracolo si è ripetuto, confermando che l’Opera vada sempre considerata nel suo insieme completo e vada vista dal vivo, perché è stata concepita per essere vista dal vivo.
Giustissimo, comunque, che la prima della Scala venga trasmessa anche in televisione e sul web: pur se non completa, l’emozione vissuta a teatro è certamente arrivata ugualmente allo spettatore sensibile ed esperto.
Natalia Di Bartolo ©
Visto da William Fratti
Il Teatro alla Scala di Milano, universalmente considerato il vero tempio della lirica, uno dei pochi teatri al mondo ad avere un’importante data fissa per l’inaugurazione da ben oltre mezzo secolo, torna prepotentemente in TV con il record di ascolti della diretta televisiva. Il titolo di cassetta, l’audience che ruota attorno alla star protagonista, una campagna marketing funzionale sono stati indubbiamente gli ingredienti principali di questo successo mediatico. Inoltre il suono è decisamente migliore rispetto a quello della diretta radiofonica e ciò rende particolarmente felici anche i melomani più accaniti.
Riccardo Chailly prosegue la sua lettura dei capolavori di Giacomo Puccini – dopo Turandot col finale di Luciano Berio, La fanciulla del West con l’orchestrazione originale, Madama Butterfly e Manon Lescaut nelle prime versioni – con Tosca, presentata nell’edizione critica a cura di Roger Parker. Il direttore milanese, pur imponendosi come riferimento per l’interpretazione pucciniana, alla guida di un’orchestra strabiliante e di un cast vocale di altissimo livello, non riesce a commuovere come nelle precedenti occasioni, risultando straordinario soltanto nella prima parte del duetto di secondo atto tra Tosca e Scarpia e nella bellissima introduzione di “E lucevan le stelle” dopo la canzone del pastorello. Nelle altre parti dell’opera sembra forse troppo attento ad una certa precisione meccanica, piuttosto che improntato al sentimento, ma ciò non pregiudica certamente la sua levatura.
Anna Netrebko è indiscutibilmente una delle migliori cantanti del pianeta, dotata di una morbidezza e una facilità su tutta la gamma che non hanno eguali. Acuti comodi e agevoli, centri pieni e corposi, gravi saldi e voluminosi, piani ottimamente timbrati, forti ben proporzionati, il tutto arricchito da un bel legato, un fraseggio interessante ma forse un po’ misurato, una buona dizione eccetto per le consonanti doppie. Nonostante tutto la sua Tosca non è così emozionante e la sua vocalità è preferibile in altro repertorio, tra cui il drammatico verdiano.
La affianca il Cavaradossi di Francesco Meli, anch’egli da considerarsi uno dei migliori dell’intero panorama internazionale. La sua interpretazione è sicuramente vincente in termini di colori e sfumature, ma il suo bel timbro e il suo buon uso della parola scenica si sposano meglio coi ruoli cantabili verdiani.
Lo stesso vale per Luca Salsi. Il suo Scarpia è cantato in maniera eccelsa, con una resa del personaggio – attraverso la voce – davvero intensa e avvincente, ma come gli altri protagonisti, pur essendo tutti al top, tutti numeri uno, nessuno di loro è in grado di dare quel valore aggiunto da risultare i migliori di sempre, ciò che invece sarebbe potuto accadere con un titolo diverso, ad esempio un Macbeth.
Ottimi anche i ruoli di contorno, soprattutto il Sagrestano elegante di Alfonso Antoniozzi, con una voce che corre e predomina, e lo Spoletta di Carlo Bosi, che è sempre una solida certezza. Più che adeguati anche l’Angelotti di Carlo Cigni, lo Sciarrone di Giulio Mastrototaro, il Carceriere di Ernesto Panariello e il Pastore di Gianluigi Sartori.
Lo spettacolo trionfante di Davide Livermore con le grandiose scenografie di Giò Forma è, senza ombra di dubbio, creato per la televisione – in cui risulta addirittura migliore che dal vivo – ed è un chiaro e meritato omaggio alla macchina teatrale della Scala – e proprio per questo ci si poteva risparmiare una pausa. L’idea di fondo è pressoché quella originale di Puccini, eccetto per alcuni piccoli momenti – come il finale di secondo atto – che fanno risultare l’azione piuttosto vuota; inoltre l’uso della controfigura non crea alcun coup-de-théâtre e appare superflua. Il lavoro di regia, come di consueto, è perfetto nell’equilibrio di movimenti, gestualità, ingressi e uscite, scene e controscene, e i personaggi sono molto ben disegnati. Il mastodontico allestimento è piuttosto piacevole in primo atto, anche se un po’ troppo movimentato; è superlativo in secondo atto; meno efficace in terzo, dove si abbandona il realismo dei precedenti a favore di un evocativo che lascia il tempo che trova.
I costumi di Gianluca Falaschi, azzeccatissimi per il coro, i figuranti e i comprimari, cadono sui protagonisti, soprattutto quelli di dubbio gusto di Tosca, quello di Scarpia troppo simile ai suoi scagnozzi e la discutibile parrucca di Cavaradossi. Ottime le luci di Antonio Castro e le proiezioni di D-wok.
Tutto sommato si tratta di una vera Tosca, di una vera Prima della Scala, dove ogni artista si merita il plauso dell’eccellenza, ma il risultato complessivo non ha portato ad alcun entusiasmo. Purtroppo talvolta la perfezione non è sinonimo di sentimento.
William Fratti
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