MADAMA BUTTERFLY a Catania – Review by Natalia Di Bartolo – Titolone annunciato finalmente in scena, teatro colmo, grande attesa…
Madama Butterfly è un gran titolo ed eccolo a Catania il 10 maggio 2019 al teatro Massimo Bellini. Titolone annunciato finalmente in scena, dunque, teatro colmo, grande attesa, per i pucciniani soprattutto.
S’inizi allora dal direttore d’orchestra M° Gianna Fratta. La musicista ha un polso fin troppo rigido ed era palese che fosse ferrata nel proprio ruolo: il suo impegno si percepiva, ma si avvertiva però che nella pratica non riuscisse a trasmetterlo se non come dato impositivo e dunque senza riuscire a comunicare le proprie emozioni, che apparivano sentite più col metronomo che col cuore, agli spettatori, né soprattutto (dato fondamentale) all’orchestra e agli artisti in palcoscenico.
A poco è servito che gli spettatori appassionati della prima fila sentissero vibrare parquet e poltroncine, con un’orchestra inquadrata e dall’organico rinforzato alla Puccini: il suono era algido, ripiegato su se stesso in un sinfonismo insistito, sterile, piatto nelle dinamiche e privo di empatia, nonché spinto a momenti al massimo volume, creando una condizione sonora che faceva del “forte” il leitmotiv dell’intera esecuzione.
Nello steso tempo, in palcoscenico vagavano con scarsa convinzione artisti potenzialmente adeguati, ma dall’apparenza demotivata, offuscati vocalmente da un muro sonoro invalicabile, costretti a seguire la direzione musicale implacabile che non li accompagnava e diretti da una regia che non spiccava il volo se non nelle gradevoli parti coreografate. Dato comprensibile quest’ultimo (ma non certo accettabile), viste le caratteristiche personali del regista Lino Privitera, ballerino e coreografo, prima che direttore in palcoscenico.
La protagonista nel ruolo del titolo, Daria Masiero, si è mostrata vocalmente corretta ma dalla proiezione non particolarmente spiccata e a maggior ragione coperta dalla barriera sonora che proveniva dalla buca. La sua interpretazione del personaggio, poi, non è stata conseguenziale, ovvero, da fanciulla quindicenne sposa innamorata, a madre e moglie tradita suicida. Probabilmente si è trattato anche qui, almeno in parte, di un’opzione registica, poiché fin dall’inizio la si è vista accompagnata e “oppressa” da sei figure simboliche di danzatori che rappresentavano i suoi antenati e nello stesso tempo i doveri della tradizione ancestrale a cui Cio Cio San finisce per cedere, togliendosi la vita. Però, in tal modo, con tale tristezza monocorde addosso e sul viso, anche la scena d’amore al primo atto è risultata di scarsa brillantezza ed intensità, così come perfino l’apparizione “a sorpresa” del piccolo Pinkerton. Il che fa rimpiangere le versioni raffinatissime di questa figurina impalpabile e incolpevole rese nelle produzioni del danese Kirsten Dehlholm (Hotel Pro Forma) da un burattino/marionetta a grandezza naturale, splendidamente manovrato dai maestri dell’arte del Teatro Bunkaru, nato in Giappone nel XVII secolo, viste e recensite al Met, a Paris Bastille ed a Bruxelles.
Il Benjamin Franklin Pinkerton di Raffaele Abete, giovane e vocalmente promettente, avrebbe avuto bisogno di un polso registico molto più robusto. Allo stesso modo lo Sharpless di Enrico Marrucci si dimostrava vocalmente gradevole nella zona media ma con evidenti problemi in quella acuta. Rigida anche vocalmente, molto poco giapponese nell’aspetto e poco epressiva nei movimenti registici la Suzuki di Ilaria Ribezzi. Modesti i comprimari, corretto il coro, diretto da Luigi Petrozziello, soprattutto nel celeberrimo brano a bocca chiusa, a cui le quinte lasciate aperte sullo sfondo avrebbero giovato in morbidezza e sonorità.
Quanto al Giappone, in palcoscenico se n’è visto molto poco, fatti salvi i paraventi a quadrati Byōbu, le enormi canne di bambù che facevano anch’esse da quinte semoventi all’occorrenza e un salice in silhouette. Non si ricerchi mai nella Madama Butterfly il becero colorismo folkloristico da illustrazione fin de siècle, ma neanche si sorpassi sulla piattezza color sabbia adottata in scena, né sugli orpelli scenici di arredamento superflui o su di un Buddha in bella mostra e fuori posto, dato che tra gli oggetti venerati da Cio Cio San spiccano gli Ottoké, le anime degli avi (anche coreografate!), proprie dello Shintoismo, religione antichissima nipponica e opposta al Buddhismo. Regista e scenografo, quindi, è bene che si mettano d’accordo prima…
Giappone tutto spento nei colori, dunque, nella scenografia di Alfredo Corno, ma anche nei suoi costumi, generici e stinti. Curati sopratutto quelli degli occidentali e in particolare quelli maschili (discutibili comunque le giacche ricamate di Pinkerton) e trascurata nella foggia e nei colori orientali perfino la protagonista. In compenso la moglie americana di Pinkerton, la graziosa Sabrina Messina, era di un’eleganza raffinata, neanche fosse stata lei la primadonna. Neppure le luci di Andrea Iozzia né il video di Daniel Arena valorizzavano l’insieme di uno spettacolo che avrebbe potuto essere, se più curato, meglio coordinato in ogni senso e reso più coeso, decisamente più gradevole.
Natalia Di Bartolo ©
Foto © Giacomo Orlando