Intervista al M° PHILIPPE AUGUIN – Per la produzione di Macbeth al Festival Verdi è stata scelta l’edizione critica di David Lawton –
By William Fratti –
Negli ultimi decenni si è potuto assistere a più di una messinscena di Macbeth 1847, in primis Firenze nel 2013, in occasione del Bicentenario Verdiano, sempre Luca Salsi protagonista. In quell’occasione è stata utilizzata la revisione sullo spartito di Lawton, ora pubblicata in edizione critica. Si tratta dello stesso lavoro oppure c’è qualche differenza?
“Per la produzione in scena al Festival Verdi abbiamo scelto l’edizione critica curata da David Lawton (The University of Chicago Press e Casa Ricordi, Milano) – ha detto il M° Philippe Auguin. In alcuni limitatissimi punti, le nostre considerazioni filologiche ci hanno portato a completare elementi che ovviamente erano omessi nelle fonti storiche: per esempio il fatto che la scena del sonnambulismo, nonostante sia esattamente identica nelle versioni 1847 e 1865, manca della parte dell’arpa – andata persa – nel materiale orchestrale della prima versione. Tutta l’orchestrazione di Verdi – e in particolare di questa scena che evoca un angoscioso incubo, affidata al corno inglese, clarinetto, fagotto e corno avvolti delle sonorità vellutate e misteriose degli archi – è l’essenza stessa della visione di Verdi, indissociabile dell’utilizzo dell’arpa, strumento che usa nel coro “Ondine e silfidi” per creare l’atmosfera fiabesca, nella stesso modo con cui Berlioz la usa nel 1846 per La Damnation de Faust. Ci sono ancora alcuni punti dell’edizione critica che, perfettamente nelle spirito deontologico dell’approccio alla partitura, lascia dei margini di libertà, come nel caso delle pagine identiche alla versione 1865 che non presentano dinamiche. C’è sempre l’eterno dibattito sulla notazione del gruppo delle percussioni per il Preludio. L’analogia può essere una cattiva consigliera. Però in questo caso è necessario mettere a confronto le diverse notazioni per le percussioni nella produzione verdiana: è difficile immaginare che Verdi, durante gli anni in cui hanno visto la luce Nabucco, I Lombardi, Ernani, I due Foscari, Giovanna d’Arco, Alzira, Attila, Il corsaro, La battaglia di Legnano, non abbia usato i piatti per il Preludio di Macbeth. Ancora più strano se si vede come le usa nella cabaletta di Macbeth “Vada in fiamme”. Si può immaginare con buona coscienza che nel Preludio del 1847 Verdi non abbia usato la gran cassa da sola, per cui l’uso caratteristico dei piatti è non solamente giustificato, ma giusto”.
All’ascolto, in molti ci si è resi conto che più che apportare migliorie, la versione 1865 semplicemente ne cambia la forma, meglio adattandosi alla moda del luogo e del momento. Da che parte sta la verità?
“Non ci troviamo di fronte allo stesso percorso e sviluppo che per esempio si ha avuto nel Don Carlo – prosegue il direttore – dove Verdi ha approfondito il suo lavoro, prendendo spunto dalle diverse versioni di Parigi, Napoli, Milano, Modena. Per Macbeth Verdi ha completamente modificato il suo punto di vista fra il 1847 e il 1865. La versione iniziale di Macbeth è incentrata sulla psicologia della Lady e ancora di più su quella del re. Nella versione del 1847 Macbeth muore, al centro del palcoscenico, dieci secondi prima dell’accordo finale dell’opera. L’ultima tonalità scelta da Verdi per concludere e dare la sua visione della totalità dei quattro atti è il Fa minore, quella della melodia grandiosa e straziante della mente oscurata della regina. Il Macbeth di Verdi del 1847 è veramente “The Tragedy of Macbeth” shakespeariano. È stupendo rendersi conto di come Verdi abbia interiorizzato la reale visione di Shakespeare, come se avesse vivisezionato, analizzato nei minimi dettagli la psicologia della coppia: lei che crede di essere forte nell’istigare all’omicidio, ma che rimane tradita dal suo crollo psicologico; lui che capisce subito che il sangue della battaglia non è lo stesso che quello dell’assassinio. Nella versione del 1865 il popolo sofferente e finalmente trionfante diventa protagonista nell’atto quarto. Dopo la sua aria “Pietà, rispetto, amore” Macbeth cessa di essere la preoccupazione primaria di Verdi. Non si tratta di un semplice “happy end”. Il nuovo re Malcolm rimane, come nel 1847, un elemento necessario per la conclusione della storia, ma per Verdi il coro, incarnazione della nazione, è il vero attore del suo destino”.
Le più grandi differenze stanno nel duetto Macbeth / Lady del primo atto; l’aria di Lady nel secondo; il ballabile e il finale nel terzo; il coro, la morte di Macbeth e il finale nel quarto; forse davvero il duetto e il coro sono delle migliorie, come pure altri interventi più modesti lungo la partitura, ma le arie e i finali d’atto sembrano proprio prendere due direzioni diverse. Quale è il suo punto di vista in tal senso? E soprattutto cosa farebbe se potesse decidere autonomamente quale musica eseguire?
È chiaro che l’aria “La luce langue” di Lady Macbeth è un gioiello che Verdi ha vestito di colori meravigliosi. Si vede con quale cura e amore Verdi abbia levigato le nuove pagine che ha incluso nella versione del 1865. Il secondo coro “Patria oppressa” rimane uno dei più belli mai scritti, ma la stessa cura e amore sono presenti anche nella versione del 1847. Verdi ha cambiato certe pagine, non per perfezionarle, non ci aveva trovato dei difetti, le cambia perché è cambiato il suo punto di vista drammatico. Le cabalette della regina e del re sono fra le più efficaci e provocatorie di tutto il repertorio operistico, ma poi Verdi non ne ha più visto la loro necessità drammatica. Nel 1847 Verdi non poteva sapere che 18 anni dopo avrebbe avuto l’opportunità di mettere di nuovo in musica le sublimi parole del Coro dei Profughi Scozzesi. Quella prima versione si rivolge alla Patria come a un madre che si vuole far tornare in vita: un monumento d’ispirazione verdiana, la grandezza del tuono di Beethoven trasfigurata dall’umanismo italiano di Verdi. Un inno, un “Va pensiero” in minore di profonda bellezza, di anima profondissima, di speranza sublime, la “Patria oppressa” del 1847”.
In termini di vocalità, eseguendo la partitura del 1847, è forse meglio volgere lo sguardo al drammatico belcantista?
La parte di Macbeth, d’un peso immenso nella prima versione, è praticamente il doppio della seconda. Nel 1847 gli interventi del re di fronte al fantasma di Banco sono veri ariosi eroici. Cosa si potrebbe poi dire della scena delle apparizioni? Le ripetute esplosioni di furia o di disperazione di Macbeth sono arie a tutti gli effetti. La cabaletta e la morte non sono concessioni allo spirito del tempo, ma sono il quadro, la forma musicale usata in quel periodo attraverso la quale si esprimevano in musica questi sentimenti e situazioni. “Al cielo, al mondo in ira, muoio… al cielo… al mondo in ira, vil corona! vil corona! e sol per te!” Non ci vedo nulla di belcantista né nel discorso né nel trattamento musicale. La Lady è più vicina ad Abigaille nel 1847 che nel 1865? Questo è ovvio. Ma questo non ne fa un ruolo belcantista”.
Lo scopo di un festival, a lungo termine, è anche quello di recuperare il più possibile ogni intervento autografo dell’autore. Pertanto potrebbe avere senso, in futuro, proporre la versione 1865 in francese?
“Lo spirito, la vocazione, la missione del Festival Verdi del Teatro Regio di Parma sono unici al mondo – conclude il M° Auguin. Nemmeno il Festival di Bayreuth mostra le prime opere di Wagner. È vero che, a decenni di distanza, Il Vascello Fantasma è stato presentato nelle due differenti versioni strumentali e Tannhäuser nelle versioni di Dresda e di Parigi. Il fatto che il Festival Verdi si sia dedicato alla totalità delle opere dal Maestro di Busseto offre a tutti l’opportunità, per la prima volta nella storia, di scoprire e venire a contatto con l’immensità del genio verdiano, in qualunque lingua questo si esprima”.
William Fratti
PHOTO Festival Verdi