Review: WERTHER baritono a Vienna, Wiener Staatsoper, con Ludovic Tézier, diretto dal M° Frédéric Chaslin.
By Natalia Di Bartolo © dibartolocritic
La portata musicale e artistica del Werther di Massenet ha una valenza quasi sacrale. Per l’appassionato e lo studioso, l’opera rappresenta un versante francese fondamentale non solo della musica operistica di fine ‘800, ma anche un eterno varco nell’anima. Le profondità della musica del Werther sono insondabili. Dunque chi scrive trova che metterlo in scena debba essere sempre una sorta di “rito”, compiuto con un sacro rispetto , per l’occasione imperdibile offerta dall’Arte al fruitore di una full immersion nell’inconscio più misterioso, alla ricerca di quell’imponderabile che solo la Musica può offrire.
Il protagonista, Werther, nacque tenore e debuttò proprio a Vienna, al Wiener Staatsoper, nel 1882. Massenet, però, adattò poi la partitura anche alla vocalità baritonale dell’allora celeberrimo Mattia Battistini, riconfezionandogli su misura l’opera, che andò in scena in tale versione a S. Pietroburgo nel 1902.
In effetti, in veste di reperto storico-musicale, la versione con il protagonista baritono è molto interessante, perché l’intervento sulla partitura fu effettuato da Massenet in persona. Nei risultati, però, Werther baritono manca di “grido”. Non di voce, perché il registro baritonale c’è tutto, ma proprio di “grido”: di quelle inflessioni e sonorità, di quel registro acuto che, oltretutto nel canto in francese, consentono al protagonista non solo di dialogare, ma di parlare con se stesso, di urlare il proprio dolore infinito e insanabile, di accostarsi alla morte trascinando con sé in un vortice anche lo spettatore. Non può essere solo l’orchestra a emettere quel grido, sottendendo una voce che non può farlo per natura.
Tutto ciò neanche se ad interpretare Werther, come è accaduto a Vienna il 28 marzo 2017 è il grande Ludovic Tézier, che di Werther ne ha cantati un’infinità, ma come Albert. In questo caso, invece, l’opera lo ha visto protagonista e Albert interpretato dal valido Adrian Eröd, a sua volta è diventato tenore.
Neanche Tézier, nel proprio splendore vocale, reduce sempre a Vienna da un memorabile Conte di Luna ne Il Trovatore, può far fronte ad una carenza strutturale della partitura rimaneggiata. Eppure si è dimostrato un Werther credibile, magnifico vocalmente, si è imposto con forza anche scenicamente. Un gran professionista, Tézier, nulla da dire, se non che lo si ripete: il Werther tenore è mancato. Più sereno il canto baritonale al finale, in cui Werther moribondo ha una parte che fa del centro il punto di forza. Onde per cui scambia facilmente col tenore diverse frasi e l’effetto del finale non soffre molto delle modifiche massenetiane.
La brava Sophie Koch ha cantato la sua ennesima Charlotte, con la professionalità che la contraddistingue e che al primo atto ha sfiorato la routine, ma che è comunque sempre apprezzabile da parte di un’interprete di questo calibro. Al terzo atto, nella parte solistica, ovviamente, si è impadronita della scena: lì nulla era diverso dal solito e questo Werther viennese, nonostante qualche imperfezione di piglio orchestrale, ha dato i debiti sussulti delle lettere all’ascoltatore nei punti giusti.
La Sophie di Maria Nazarova si è dimostrata ben recitata e vocalmente adeguata alla parte: il canto francese è un altro mondo rispetto a quello italiano ed evidentemente la Nazarova si trova meglio in questo repertorio, nonostante lo squillo e l’estensione: ne La Sonnambula, sempre a Vienna, nel gennaio scorso, l’impressione data dalla sua Lisa non era stata positiva, poiché l’aderenza ai canoni del bel canto italiano non aveva sufficiente pregnanza. Qui, invece, la minuta e graziosa cantante ha tratteggiato una Sophie adolescente vivace, anche vocalmente.
Dirigere il Werther è molto difficile: la partitura necessita di una mano direttoriale adatta al “rito” di cui sopra si parlava. L’affondo delle sezioni orchestrali può e deve, a momenti, divenire addirittura violento, percorrendo il cammino in ascesa di una musica che sale dal profondo, non si ferma alla base. Farla rimanere latente a sottendere il canto è il più gran delitto che si possa commettere nei confronti del capolavoro.
A Vienna, il Maestro francese Frédéric Chaslin, d’impronta decisamente tedesca, ci ha messo tutta la buona volontà e la perizia di cui è capace. Ma troppo scandita, a volte quasi compitata, la sua direzione, mancante dunque di quella fluidità che le dà al momento giusto la possibilità di trasformarsi in guizzo, in staffilata addirittura. Però nel complesso, comprese le modifiche che hanno reso più esigue le parti di Schmidt e Johann, i corretti Peter Jelosits e Marcus Pelz, tutto è andato a buon fine.
Quel che ha disturbato, invece, in questa collaudatissima produzione viennese, è stata la solita messa in scena.
La regia di Andrei Serban è accurata, pur se ha fatto diventare i bambini un reggimento, ma ha delle pecche, che si notarono già da tempo da parte di chi scrive: con quel dondolo giallo sulla sinistra al primo atto, quell’aria da fine anni’ 50 con i mobili d’epoca e perfino il televisore in casa di Charlotte, contorno scenico poco gradevole di Peter Pabst, a cui i costumi sciatti di Petra Reinhardt contribuiscono, il Serban fa muovere i protagonisti in un’atmosfera fuori tempo e fuori luogo.
In questo caso, il Werther di Tezier si è giustamente distaccato dall’insieme, in una sorta di dimensione a-temporale tutta personale che ha giovato al personaggio. E poi in questa produzione è previsto che il protagonista muoia sul letto con le scarpe ai piedi. Il Tezier, nella propria perizia scenica, ha cercato anche di adagiarsi di traverso, ma il protagonista deve volgere le suole alla platea; e dunque egli stesso e parecchi tenori, alternatisi nel tempo, hanno cantato in tal modo. Fece bene Roberto Alagna, nella stessa produzione, a togliersi le scarpe! Ma, a parte questo particolare, la morte di Werther è sempre un problema registico. In questo caso, con il corpulento Tézier, il tutto si è risolto con gusto, senza troppe contorsioni, in un finale, nonostante tutto, sentito e credibile.
Pubblico entusiasta per la prestazione, in particolare, del celebre interprete. Ben riuscita o meno rispetto all’originale, l’opera con Werther baritono, assai poco rappresentata, resta comunque una chicca e, a Vienna, le chicche sono sempre degne almeno di Casa Sacher.
Natalia Di Bartolo © dibartolocritic
PHOTOS © WIENER STAATSOPER | Michael Pöhn