2Reviews2: LA GAZZA LADRA al teatro alla Scala di Milano, diretta dal M° Riccardo Chailly con la regia di Gabriele Salvatores.
By Lukas Franceschini e William Fratti –
6 aprile 2017
Dopo un’assenza di centosettantasei anni dall’ultima edizione il Teatro alla Scala ha messo in cartellone l’opera semi-seria La gazza ladra di Gioachino Rossini, la quale ebbe la prima esecuzione proprio nel teatro milanese il 31 maggio 1817.
Un inspiegabile oblio, come affermato dal maestro Riccardo Chailly, il quale ha voluto fortemente questa nuova proposta e allo stesso tempo ha aggiunto un altro titolo rossiniano al personale catalogo d’esecuzione.
Né La gazza ladra la favola e il romanzo si amalgamano in modo caratteristico e il ritmo porta avanti la vicenda fino al lieto fine. C’è però l’aspetto drammatico e patetico, non secondario al brillante, e in particolare è sottolineato dal rapporto padre e figlia (Ninetta-Fernando) con accenti che sono antesignani del romanticismo operistico della scuola italiana. L’intera partitura, molto difficile sia per i cantanti sia per l’orchestra, è un perfetto equilibrio tra fasto e candore, ritmo e ironia. Opera poi dimenticata, escluso la sinfonia, per quasi due secoli non solo a Milano, che vanta una ripresa consistente solo negli ultimi anni. Molti musicologi affermano che l’opera è per altezza d’ispirazione e per drammatica potenza e accuratezza nella forma, una delle migliori dell’autore, identificata anche in una strumentazione raffinata. E’ un dramma realistico che dalla semplice commedia campagnola diventa, specie nel II atto, una vera tragedia e si conclude riprendendo il carattere iniziale. Anche se il “fatto” è assurdo, una ragazza condannata a morte per un furto di posate d’argento, Rossini trova modo di sviluppare drammaturgia e musica sfoderando tutte le variegate possibilità, arie di sortita brillanti, grandi arie solistiche, innumerevoli pezzi d’assieme, un brindisi, giocando con grande maestria sui diversi stili, toccando vertici compositivi davvero rilevanti e d’effetto. A tal proposito è interessantissima l’intervista al M.o Chailly, pubblicata nel programma di sala, che illustra nel dettaglio tutte le caratteristiche musicali dell’opera.
Poco efficace la regia di Gabriele Salvatores, che si limita a narrare in senso onirico ma senza un’idea drammaturgica vera e propria, poco edificanti le scene brillanti e non sufficientemente focalizzate quelle drammatiche. Sotto un peculiare punto di vista si potrebbe ipotizzare che il regista nella sua lettura abbia voluto parafrasare la commedia dell’arte, ecco allora inserite con pertinenza nella sinfonia le straordinarie marionette di Carlo Colla, in seguito nel corso dell’opera utilizzate con dozzinale riuscita. Discutibile lo spostamento delle masse, poche idee innovative e qualche “imprestito” da altri, come la mima-acrobata che interpreta la gazza cui va aggiunto l’improbabile corteo dell’esecuzione a morte di Ninetta da Santa Inquisizione con gendarmi incappucciati di nero. La scena semifissa di Gian Maurizio Fercioni pur nella statica bellezza non aiuta, ad eccezione della struttura sulla destra che, teatro nel teatro, si trasforma in casa nobile, prigione e tribunale. Lo stesso Fercioni ha mano più felice nei costumi, anche se quello del podestà, che parafrasava il conte Dracula, era alquanto bizzarro. Le luci di Marco Filibeck erano molto efficaci e di grande impatto.
La direzione di Riccardo Chailly era esemplare per cristallina esecuzione e massima attenzione a tutti i dettagli, cesellata in ogni angolo con cura maniacale assieme all’ottima orchestra e al coro in forma lucenti. Tuttavia, egli sceglie una lettura più giocata sul terreno drammatico a discapito talvolta del ritmo incalzante, già dalla sinfonia si percepisce il ruolo fondamentale della solennità, anche se i tempi erano ben sostenuti. Se la scena del tribunale e strabiliante per aderenza stilistica, e funzionali sono tuti i terzetti e concertati, meno riuscito è parso il brindisi, ma probabilmente è solo questione di gusto personale. Inoltre, non è da sottovalutare l’amorevole contributo del maestro nei confronti delle voci, sempre sorrette con perizia e giusto equilibrio sonoro.
Nel complesso la compagnia di canto era apprezzabile, anche se più concentrate sullo spessore rispetto l’espressività. Rosa Feola, Ninetta è un soprano musicale e precisa, convince sul lato patetico meno su quello drammatico. Piuttosto esile, pur senza gravi pecche, il Giannetto di Edgardo Rocha.
Migliori le voci basse di Alex Esposito, Fernando, per perizia e precisione vocale anche se talvolta monocorde, e Paolo Bordogna, Fabrizio, elegante e istrionico il quale offre una luce accattivante al personaggio che sovente scivola in disparte. Onore alla professionalità di Michele Pertusi, Gottardo, ma ormai ruoli così virtuosi dovrebbero cedere il passo ad altri più congeniali.
Rilevante per accento e musicalità la Lucia di Teresa Iervolino e straordinariamente bravissimi tutti gli altri interpreti nei ruoli minori, Matteo Macchioni (Isacco), Matteo Mezzaro (Antonio), Claudio Levantino (Giorgio e pretore) e Giovanni Romeo (Ernesto).
Il ruolo meno riuscito è stato quello di Pippo interpretato da Serena Malfi, la quale non possiede le caratteristiche necessarie ed è penalizzata anche da una voce poco affascinante.
Alla quinta recita cui ho assistito il teatro era quasi esaurito e giustamente prodigo di applausi, la gazzarra della prima è ormai dimenticata.
© Lukas Franceschini
5 maggio 2017
Riportare in scena titoli che al Piermarini hanno avuto i loro natali, per poi essere ingiustamente dimenticati, è compito lodevole, culturalmente vincente, ma al contempo difficile da mediare col gusto odierno del pubblico. Nel caso della pregevole La gazza ladra, come lo scorso anno per Giovanna d’Arco, si assiste a un recupero molto intelligente: l’opera, nella sua interezza e revisione critica a cura del compianto Alberto Zedda, è già stata più volte rappresentata al Rossini Opera Festival di Pesaro, pertanto questa della Scala appare come una conferma internazionale del ritorno di questo capolavoro – fatto di numeri musicali fin troppo all’avanguardia per l’epoca – sulle scene di tutto il mondo.
Riccardo Chailly, che in molte occasioni ha dimostrato di essere un ottimo esecutore del repertorio rossiniano, si avvale di un cast composto quasi interamente di specialisti – in molti hanno già interpretato il ruolo – e il risultato complessivo che ne ottiene, soprattutto in termini di stile, è davvero eccellente, eccezion fatta per le variazioni che sono veramente ridotte ai minimi termini. Il vigore con cui dirige “la grandiosa vastità dell’affresco” è superbo, pur non mancando accenti drammatici e sfumature patetiche, anche se in alcuni momenti si nota un eccessivo volume orchestrale. Pregevole il fortepiano di James Vaughan. Ineccepibile il Coro del Teatro alla Scala guidato da Bruno Casoni.
Rosa Feola è una bravissima Ninetta, tecnicamente impeccabile, soprattutto nell’intonazione e nelle colorature. Il timbro è leggermente acidulo e ciò rende ancor più interessante il gusto rossiniano, particolarmente nei passaggi più meccanici. Per questo ruolo si preferirebbe una vocalità più morbida e scura, tanto da rendere maggior pathos nelle pagine più sentimentali e commoventi, purtuttavia Rosa Feola riesce comunque a rendere i giusti colori.
La affianca il Giannetto di Edgardo Rocha che in questa parte mostra ulteriori pregi rispetto a performance precedenti, principalmente negli staccati, nelle punte, in generale in tutti i virtuosismi, ma anche nelle belle frasi melense del finale primo.
Il canto di Michele Pertusi è da prendersi come una scuola. Il suo modo di porgere il suono, di articolare la parola, di dare intenzione ad ogni singolo fraseggio, in ambito rossiniano non ha rivali. È naturale che la sua voce non abbia più l’elasticità di un tempo, ma l’espressività è insuperabile e il suo Gottardo vive di tutte le sfumature volute dal compositore, dalla quasi buffa cavatina, alla viscida e drammatica seconda aria, fino alla resa conclusiva.
Alex Esposito è un Fernando più che eccellente. Stile perfetto, linea di canto sempre uniforme, agilità sopraffine, colori centratissimi e notevole spessore drammatico arricchiscono la sua vocalità già naturalmente bella e predisposta al repertorio del pesarese.
Teresa Iervolino è una buona Lucia, principalmente nell’interpretazione e nel canto patetico, ma c’è ancora molto spazio di miglioramento nelle agilità e nella proiezione. Serena Malfi è un Pippo più che discreto, ma volume, timbro e proiezione hanno bisogno di maggior corpo. Ottimo il Fabrizio di Paolo Bordogna, costantemente brillante e con suoni sempre in punta. Molto piacevole l’Isacco di Matteo Macchioni. Efficaci anche Matteo Mezzaro nei panni di Antonio, Claudio Levantino in quelli di Giorgio e del Pretore, Giovanni Romeo in quelli di Ernesto.
Lo spettacolo di Gabriele Salvatores è abbastanza deludente. Salvatores, come molti altri registi di cinema che si sono accostati o riavvicinati al teatro dopo tanti anni, non appaga poiché privo di idee originali. La gazza acrobata, le marionette, i doppi o le proiezioni dei personaggi, il teatro nel teatro, sono tutte cose già viste e riviste che da sole, senza una novità che faccia da zoccolo duro, non giustificano l’alto nome del regista coinvolto. Detto ciò va comunque riconosciuta l’eccellenza del lavoro minuzioso fatto con gli interpreti in termini di gesti, sguardi, espressioni, movimenti, azioni che riempiono costantemente le oltre tre ore di musica, poiché non c’è uno spazio vuoto, ma tutto è studiato nel minimo dettaglio pur nella massima naturalezza.
In perfetta linea con lo spettacolo, anche se un poco anonime, le scene di Gian Maurizio Fercioni e le luci di Marco Filibeck. Migliori i costumi, sempre di Fercioni.
William Fratti
PHOTOS © Brescia e Amisano