Review: TOSCA al Festspielhaus di Baden-Baden diretta da Simon Rattle alla guida dei Berliner Philharmoniker.
By Natalia Di Bartolo © DiBartolocritic
Una delle caratteristiche che contraddistinguono le grandi orchestre è la flessibilità. Dunque, quando a eseguire l’Opera sono i Berliner Philharmoniker, si fermi il mondo.
La meraviglia di un’orchestra del genere è anche la fluidità d’esecuzione, la docilità di risposta al gesto direttoriale, la capacità di ascoltare e supportare i cantanti anche al di là del direttore stesso. Dunque l’esperimento Tosca compiuto dal M° Sir Simon Rattle, per il Festival di Pasqua 2017 al Festspielhaus di Baden-Baden, dal punto di vista orchestrale è riuscito. Il concertatore e direttore principale dei Berliner ha tenuto l’orchestra in pugno e s’è fatto tenere in pugno dall’orchestra. Una reciprocità che, come la flessibilità di cui sopra, è propria solo delle grandi compagini orchestrali.
Con materiale sonoro del genere in buca, i “suoi” Berliner, il M° Rattle ha dato vita ad una serata pucciniana, il 17 aprile 2017, con un capolavoro la cui resa melodica e armonica è stata lodevole. Nonostante qualche indugio nei tempi nel Te Deum al primo atto, qualche momento che avrebbe necessitato di meno lirismo e di uno stringere più nervoso dei tempi, la direzione del M° Rattle è stata irreprensibile. Grandi colori sparsi a profusione, con dinamiche sottolineate magistralmente. Anche il supporto ai cantanti è stato curato allo spasimo: cantare con i Berliner non è roba da poco. Lo sapevano bene gli interpreti, che ne apparivano, a tratti, anche intimiditi, ma lo sapeva assai bene soprattutto il Maestro, che ha contenuto la piena dal golfo mistico, scatenandosi in virtuosismi nei momenti solo orchestrali.
Intimidito, in particolare, sembrava Marco Vratogna, uno Scarpia che avrebbe necessitato di un maggiore agio nella zona acuta e di meno spinta nei forti. Tutto sommato corretto, era però anche spiazzato e lasciato a se stesso dalla regia. Ma se ne riparlerà…
Avendo iniziato a ritroso con gli interpreti principali, si passa al Cavaradossi di Marcelo Álvarez, il quale sembrava assolutamente convinto di essere un protagonista maschile di tutto rispetto, impegnato soprattutto a sfoggiare le proprie capacità di tenore eroico. Ad onta dei suoi sforzi, il fraseggio era assai poco elegante, il legato a tratti inesistente…il bel canto, insomma, era accantonato a favore di un sillabare le frasi musicali e perfino le singole parole. In E lucevan le stelle, il tenore forzava le T e le raddoppiava: ascoltare un “Che non ho ama-TTO mai TTAn-TTO la vi-TTA” per dare al finale delle parole il risalto che reputava necessario, per esempio, ha prodotto solo una mancanza assoluta di eleganza e confermato l’assenza di stile di una voce che, se correttamente emessa ed espressa, potrebbe essere notevole. La mancanza di eleganza, poi, non era da meno, purtroppo, neanche nell’interpretazione. La regia non lo aiutava per niente…
E, dulcis in fundo, la Tosca di Kristine Opolais, che era tutta un “callassare” nelle movenze, ma vocalmente, per fortuna, era la migliore in scena: almeno lei la voce l’aveva tutta. Anche troppa, in verità, quando, così come ha fatto, si prende un SI naturale anziché un SI bemolle in Vissi d’arte, nell’acuto su “Signor”, cioè si sale di tono, forse a ragion veduta, per evitare il tanto temuto calo. E poi, perché un fiato fuori posto che spezzava una delle frasi larghe e splendide, sempre in Vissi d’arte? Un vero peccato, perché la Opolais di fiato ne ha tanto. Di espressività, invece, non molta, nonostante la prova di perizia scenica da mancata attrice hollywoodiana. La sua Tosca era priva di tensione drammatica, era troppo recitata, in un contesto che poi, per il resto, era davvero fuori luogo e fuori posto in ogni senso.
Bypassando il pur corretto Angelotti di Alexander Tsymbalyuk, costantemente ammanettato con le mani dietro la schiena (come avrà fatto a svuotare il paniere di Mario dal cibo per nutrirsi?); non ignorando le sottese tendenze pedofile imposte dalla regia al sagrestano, Peter Rose, nei confronti di un ragazzino che poi è stato “utilizzato” senza alcun nesso logico come solista per la canzone in romanesco del pastore al terzo atto; i mediocri comprimari con seri problemi di dizione italiana (e non solo) e il Philharmonia Chor Wien, pur gradevole e ben istruito da Walter Zeh, non si è potuto che cogliere sui volti degli spettatori una sconsolata perplessità nei confronti della nuova produzione di Philipp Himmelmann.
Chi scrive non può togliersi dalle orecchie un’intervista con un altro dei più rampanti registi sulle scene tedesche, che quasi si giustificava contrito per non aver potuto trasporre nel tempo un’opera che necessitava assolutamente dell’ambientazione storica nella quale era stata creata. Si arriva oggi a tali paradossi! Bene, quell’opera non era Tosca…ma anche per Tosca lo Himmelmann avrebbe dovuto fare lo stesso ragionamento di quel regista, che una volta tanto lasciò tutto al proprio posto nel proprio tempo.
E qui si riprende il discorso accennato prima a proposito degli interpreti principali, mossi come pedine su un immenso palcoscenico semivuoto e squallido. Troppi film di fantascienza nel bagaglio visivo di questo regista, nelle scene algide e sgradevoli e nei costumi impersonali. Il sostegno agli interpreti, era anch’esso distorto e spesso li si lasciava a se stessi. Risultato di assoluta approssimazione all’approccio con un capolavoro.
Scarpia era a capo di una sorta di confraternita malefica alla Matrix, uniformato nell’aspetto con i suoi scagnozzi, coro compreso nel Te Deum. Ma perché, se l’ambientazione, il tempo, lo snodarsi della vicenda e tutto il resto sono porti dal libretto su un piatto d’argento? Il libretto reca pure la data: è ambientato a Roma nel giugno del 1800, nella chiesa di S. Andrea della Valle al primo atto, a Palazzo Farnese nella camera di Scarpia al piano superiore al secondo e sulla piattaforma di Castel Sant’Angelo nel terzo, checché se ne dica, checché se ne pensi, volendo financo ignorare l’originario dramma in prosa del Sardou.
Il viso della Maddalena-Attavanti al primo atto era stampato su un maxi-schermo…ma non solo: il suo ritratto era dipinto sul pavimento di S. Andrea della Valle. Trovata assurda in ogni senso, non solo perché ben pochi spettatori l’hanno potuto vedere, come con spicciolo senso pratico rilevava il critico di un giornale americano, ma soprattutto perché è impensabile che dentro una chiesa qualsiasi, sia pure in qualsivoglia tempo, un pittore dipinga sul pavimento, neanche fosse stato un madonnaro. E senza offesa per questi artisti, che a volte sono più bravi dei pittori ben più celebri di loro.
Poi quella sottesa tendenza complessiva della regia al voyeurismo, tutti quegli schermi e quelle riprese, un déjà vu da Biennale di Venezia anni ’90. Una trovata un po’ attempata, se non altro, da padiglione della mostra veneziana che forse allora poteva destare qualche “ohhh” di meraviglia. I media nella Tosca? A che pro? Qui si annunciava la sconfitta di Melas a Marengo e se ne verificava la veridicità al computer!
Fucilazione, poi? Obsoleta. Eppure Scarpia dice: “il prigionier sia fucilato!” Invece qui Cavaradossi muore con un colpo in testa inferto da una pistola per mattazione, che poi la stessa Tosca utilizza per il suicidio. No comment, se non che Illica e Giacosa, insieme a Sardou, si saranno rivoltati nella tomba.
Lo sgomento sui visi degli spettatori era palese, come prima si accennava. Applausi soprattutto alla parte musicale, quindi, che si è dimostrata il punto forte della serata; e qualche dissenso. In attesa che questa produzione faccia il giro dei grandi teatri…
Natalia Di Bartolo © DiBartolocritic
PHOTOS © Festspielhaus Baden-Baden | Monika Rittershaus