Sonya YONCHEVA trionfa ne LA TRAVIATA al Metropolitan Opera di New York.
Review by Neco Verbis © dibartolocritic –
Varcare gli oceani si può se è per ascoltare una Traviata superlativa. Al Metropolitan Opera di New York è accaduto, il 24 febbraio 2017, quando nei panni di Violetta è salita sul palcoscenico il soprano bulgaro Sonya Yoncheva.
Una Violetta sublime, dalla vocalità morbida, dalla duttilità ineguagliabile. Un soprano di gran scuola, in cui si fondono le voci di tante grandi interpreti del passato, e se ne odono chiare le reminiscenze, ma una Traviata unica.
L’intonazione perfetta, la linea di canto e il legato eccellenti, il fraseggio elegantissimo. Solo qualche imperfezione nella precisione delle parole italiane, dove “insolito vigore” è divenuto “un solito vigore”. Ma si tratta di dettagli: avercene! La migliore Violetta sentita da molti anni a questa parte. Pur se inserita nel contesto a-temporale e visionario della più che collaudata messa in scena di Willy Decker, originariamente proveniente dal Festival di Salisburgo, la Yoncheva col vestitino rosso, ideato fra i costumi, insieme alle scene, da Wolfgang Gussmann, è stata la protagonista assoluta della serata al Met.
Il soprano era affiancato da un Alfredo statunitense del New Jersey, Michael Fabiano, purtroppo soggetto a problemi d’intonazione, dall’impasto vocale carico e un po’ ingolato. Nei duetti soccombeva alla perfezione della Yoncheva, perfezione anche stilistica, d’immedesimazione e di profondità di interpretazione. Colei che ha saputo essere vocalmente mesta anche durante il brindisi.
Un grande Thomas Hampson un po’ appannato, forse sofferente di un qualche problema di stagione, ha dato voce a Germont padre, scenicamente autorevole, ma non all’altezza delle sue migliori prestazioni verdiane, che sono sempre memorabili.
Ottimi l’Annina di Jane Bunnel e il dottore di James Courtney, altrettanto gli altri interpreti ed il Coro diretto da Donald Palumbo.
Il M° Nicola Luisotti, che ha diretto la grande orchestra del Metropolitan Opera, sapeva assai bene il fatto proprio quanto a direzione verdiana del La Traviata all’italiana. E infatti i risultati si sono visti, tutti al positivo.
La produzione di Willy Decker con scene e costumi di Gaussman, a cui sopra si accennava, conserva ancora oggi un fascino un po’ sinistro, onirico, in cui i personaggi si muovono interagendo con le coreografie di Athol Farmer , ma spesso in solitudine, in cui il coro cammina all’indietro e l’alter ego di Violetta, il dottore che ne decreta la fine, incombe durante tutto il tempo.
Ma incombe soprattutto l’orologio, l’immenso orologio che diventa tavolo da gioco e altare su cui Violetta viene immolata all’oltraggio ingiusto di Alfredo. Tutto per metafora, anche le lancette che si fanno banderillas per la corrida, i fiori del giardino stampati nella tappezzeria, gli arredi lineari, la rarefatta presenza di oggetti in scena, i movimenti scenici animati da maschere e personaggi inquietanti.
Un po’ magrittiana, un po’ picassiana, un po’ alla Dalì, un po’ minimalista (“arredamento da Ikea” è stato scritto più volte), la messa in scena resta comunque discutibile ma interessante, sotto le luci di Hans Toelstede.
Applausi scroscianti, standing ovation per la Yoncheva, apprezzamento per tutti gli interpreti, in una Traviata in cui la protagonista ha fatto faville.
Neco Verbis © dibartolocritic
PHOTOS © Marty Sohl/Metropolitan Opera