CARMEN a Palermo

Review by Natalia Di Bartolo © dibartolocritic


Palermo, 29 novembre 2016

Carmen di Bizet è Carmen. Senza altro appellativo. Ma se Carmen è Carmen, lungi dal sottovalutarne la matrice francese, il pensiero va alla Spagna.

Il fatto che il regista Calixto Bieito, illo tempore, non abbia personalmente gradito, per ispirarsi, l’atmosfera del Sud propriamente spagnola e, in impegnativo e illuminante viaggio di ricerca interpretativa, sia andato a finire, con tutta la sua “équipe artistica”, in Marocco tra i contrabbandieri in Mercedes, non dovrebbe fare testo, normalmente. Invece lo fa. E il bello è che lo fa da anni, da diversi anni.

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Vedere riproposta anche al Teatro Massimo di Palermo il 29 novembre 2016 la sua messa in scena del capolavoro di Bizet che ha quasi fatto ormai il giro del mondo, sinceramente, a parte i fari delle auto sparati negli occhi degli spettatori in platea, il simbolismo gratuito di certi personaggi, il nudo integrale del torero/ballerino che non fa più impressione a nessuno, la squallida cabina del telefono (“Che storia d’amore sarebbe senza un telefono?” eloquenti parole del regista nell’ennesima intervista) infonde un gran senso di tristezza. Dunque, chi scrive preferisce al momento sorvolare su una messa in scena fin troppo giudicata, chiacchierata e soprattutto “vista”, passando al versante musicale.

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Il M° Alejo Pérez

Il M° Alejo Pérez, alla guida della valida orchestra del teatro palermitano si è posto probabilmente più il problema del volume orchestrale che dei coloriti, lanciandosi in picchi di compiacimento nelle parti in cui la sola orchestra non poteva recar “ombra” agli interpreti. Molto di routine, però, anche dette parti orchestrali, scolorite le dinamiche, non abbastanza sottolineata la ricchissima tavolozza offerta da Bizet. E’ una tavolozza francese: farne una specie di nastro trasportatore sotteso al canto significa decisamente appiattirla.

Se poi la protagonista non brilli in sensualità, almeno si spera che brilli vocalmente. Ma la Carmen di Justina Gringyte non ha brillato, in verità, neanche in questo dato fondamentale, perché, nonostante il bel colore bruno della voce, l’impostazione lasciava a desiderare, favorendo un’approssimazione negli attacchi e nei finali che le risultava penalizzante, mancando anche sul versante del fraseggio e della dizione, pressoché inintellegibile.

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Il don Josè di Roberto De Biasio si mostrava forse più impegnato a non venir meno alla possanza vocale a discapito dell’interpretazione, ma ciononostante si è dimostrato, vocalmente, interprete gradevole, godendo di un buon impasto timbrico e di una discreta proiezione, sempre se gli si voglia perdonare il mollare il fiato nei piano, guardando l’evento in falsetto come un vezzo del tutto francese.

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La Micaela di Shelley Jackson mancava di soavità, nonostante gli sforzi tecnici nei filati e nei piano, e non era certo aiutata dalla regia né dal costume. Il duetto con don José nel primo atto, poi, di sublime valenza artistica, ha risentito di una poco gradevole discordanza tra gli interpreti.

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Il volenteroso Escamillo di Zoltan Nagy ha mostrato una robusta voce baritonale in evoluzione, di ottima scuola, da ascoltare anche in promettente prospettiva. Pure qui, però, la regia ha penalizzato un personaggio che necessiterebbe avere personalmente maggior risalto scenico e, tutt’attorno, coreografico.

Comprimari corretti ma non brillanti, Coro diretto da Piero Monti piuttosto carente in coloriti e debordante nei forti, altrettanto quello di voci bianche sotto la guida di Salvatore Punturo, in un insieme complessivo che anch’esso ha risentito dei costumi sciatti di Mercè Paloma e delle luci non particolarmente incisive di Alberto Rodriguez Vega.

E qui è d’obbligo ritornare sulla regia di Bieito , ma non per analizzarla (sarebbe l’ennesima volta e sarebbe anche ora di archiviarla), ma per sottolineare complessivamente quanto sia dannosa per gli interpreti una produzione registica che abbia anche la capacità di sviare, anziché convogliare l’attenzione dello spettatore sui protagonisti di turno in scena.

Il pubblico, infatti, aspettandosi splendori scenici o, se non altro, un po’ di “colore”, inteso in senso lato, si è demotivato e adagiato, rimanendo avaro d’applausi e d’energia positiva, della quale gli interpreti si nutrono per dare il meglio e che a loro volta ritrasmettono agli spettatori. Una specie di serpente che si morde la coda, quindi, che ha danneggiato artisti e pubblico insieme e dell’effetto negativo del quale, nello scegliere le produzioni, bisognerebbe tenere debito conto.

Natalia Di Bartolo © dibartolocritic

PHOTOS © Rosellina Garbo