“Virginedda Addurata” al teatro del Canovaccio

Review by Alfredo Polizzano —


Ormai la stagione di Palco Off a Catania è diventato un appuntamento irrinunciabile per chi ama il buon teatro e quest’anno comincia con una anteprima mettendo in scena, dal 20 al 23 ottobre, Virginedda Addurata al teatro del Canovaccio, sede di tutti gli appuntamenti tranne uno (Misantropo che sarà messo in scena a Scenario Pubblico). Una stagione davvero ricca di grandi lavori, di grandi interpreti ma soprattutto di grandi storie perché è bello riscoprire il piacere di andare a teatro per il Teatro.

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Virginedda Addurata non passa certo inosservato per i grandi nomi che lo compongono a cominciare dall’autrice Giuseppina Torregrossa che ha voluto e saputo trascrivere la storia di cinque donne (santa compresa) all’interno di una unica, profonda emozione. Come è tipico dello stile della Torregrossa, anche Virginedda Addurata è l’esempio di una scrittura siciliana forse poco realistica, piena di italianismi e forme verbali non autoctone ma che, forse proprio per questo, rendono il testo più contemporaneo e allo stesso tempo più universale. Magistrale in questo senso, ma non ci si poteva aspettare di meno, l’interpretazione di Francesca Vitale con la sua santa Rosalia dalla cadenza fortemente agrigentina, resa umana, viva proprio come l’intenzione drammaturgica intende capace di guardare il pubblico direttamente negli occhi accomunandolo così alla massa indolente e capricciosa di fedeli invadenti.

Di notevole forza espressiva la camaleontica Egle Doria, capace di vestire i panni di ben quattro donne, tre generazioni, alle prese con un unico grande dramma: un uomo violento e brutale, vero protagonista in absentiadell’intero dramma, davanti al quale perfino santa Rosalia si dimostra inerme. Anche nel suo caso, l’inflessione linguistica tipicamente catanese fa i conti col testo rendendo l’interazione tra le donne e la santuzza palermitana un abbraccio drammatico che stringe in una morsa tutta l’isola.

Una regia curata nei dettagli, quella di Nicola Alberto Orofino, che è riuscita a rendere la messa in scena, attraverso movimenti scenici ed un sapiente uso delle luci, quasi cinematografica, come se la quarta parete, ora aperta, ora serrata, fosse uno schermo capace di primi piani e panoramiche, sfruttando al meglio una peculiarità tipicamente teatrale, ovvero quella di entrare anche dentro i pensieri e i ricordi di ogni personaggio. Forse un po’ troppo zelante nel volere, in alcuni punti, drammatizzare o sdrammatizzare troppo quello che drammatico o sdrammatizzante è già presente nella drammaturgia.

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Anche l’uso della musica sembra mandare un messaggio subliminale agli spettatori, altalenanti tra il riso e l’orrore, tra il comico e il brutale, il messaggio, dicevo, che ci si trova davanti a drammi probabilmente non troppo lontani dalla vita quotidiana di molte donne, drammi tra i quali ognuno ed ognuna di noi vive, storie di donne, di uomini e di bambini della cui gravita ci rendiamo conto solo quando ormai è troppo tardi.

Alfredo Polizzano

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