Review: ATTILA al Teatro alla Scala

Review: ATTILA al Teatro alla Scala – By Natalia Di Bartolo – Un Attila epocale per i nostri tempi (lineari) da terzo millennio –


Un “tempo distopico” sembra ormai obbligatorio, senza alcuna deroga, per le recenti messe in scena d’Opera che vogliono “attualizzare” le produzioni. Sarà pure “distopico”, ma non è altrettanto “discronico”, perché ci ritroviamo sempre in pieno periodo nazista. Fatti salvi i corretti riferimenti ancora “freschi” e altrettanto dolenti per lo “svecchiamento” di qualsivoglia tiranno operistico, questo periodo storico pare ormai inflazionato. Finirà che, stanchi di tale soluzione, per esprimere il tanto anelato tempo distopico si tornerà alla regolare ambientazione temporale in cui l’opera è stata collocata dagli autori. Sarà gioia per i puristi e motivo di riscatto per i filologi.

Nell’attesa di questo evento, fermo restando tale assunto che ci impone coltelli a serramanico al posto dei pugnali e pistole e fucili al posto delle spade e delle lance, ma soprattutto divise scure e ambientazioni fosche e post-apocalittiche, a noi che viviamo il nostro modesto tempo topico e lineare, se proprio dobbiamo apprezzare le produzioni d’Opera che seguono questa tendenza, almeno sia concesso trovare nessi adeguati e ricche idee descrittive ed estetiche.

E’ ciò che si è verificato al teatro alla Scala il 7 dicembre 2018, inaugurazione di gala tradizionale della Stagione Lirica, collocata come sempre in data di S. Ambrogio e destinata anche al pubblico delle mondanità e della politica.

Presente il capo dello Stato Sergio Mattarella, dopo un’ovazione durata diversi minuti e l’Inno nazionale di prammatica, la scena si è aperta, come ormai si usa (non si sa bene perché) in piena introduzione e il suddetto tempo distopico, in questo caso ideato nella nuova produzione dal regista Davide Livermore, ha iniziato a delinearsi.

Lo spettatore ha immediatamente afferrato che ci si trovava davanti al periodo storico di cui sopra, però l’impressione che il tutto fosse stato congegnato molto bene e con molta dovizia di uomini e mezzi è saltato fuori immediatamente. Ma ci si tornerà, perché quando la bacchetta della direzione è già in mano al M° Riccardo Chailly, ogni altra considerazione obbligatoriamente tace.

Il Maestro ha retto con polso fermo un andamento dei tempi che tendeva ad essere lento in alcuni punti, ma mai sfibrato. La cura di alcune dinamiche rispetto ad altre ha privilegiato qualche marzialità in meno dove forse ci sarebbe voluta, ma la partitura di Verdi è stata letteralmente passata allo scanner: nulla è stato trascurato e, con un occhio già al venturo Macbeth,  sono venuti fuori colori inconsueti, momenti lirici che di solito sono sovrastati da quelli ritmici e passano inosservati. Insomma: una direzione di gran classe e aderente in assoluto ai gusti e all’indole del Maestro, così come finora lo si conosce e da sempre lo si apprezza. Una gran festa per lo spirito l’ascolto di questo capolavoro, con dentro le chicche che Chailly ha voluto inserirvi: l’aria alternativa di Foresto “Oh dolore” scritta da Verdi con Napoleone Moriani per la prima milanese di Attila nel 1846 e le battute composte da Rossini per introdurre un’esecuzione in concerto del terzetto “Te sol quest’anima”. Italiche finezze.

Il “materiale vocale” in scena a disposizione del Direttore, poi, era letteralmente impressionante. Prova lampante di come si possa mettere insieme un cast “giusto” oggi in un grande teatro, senza ricorrere a celebri cariatidi afone dopo quarantennale carriera o a presunti divi dalla fama gonfiata. Il giusto mezzo: grandi artisti giovani, non più emergenti ma già emersi abbondantemente in carriere internazionali, chi più chi meno, ma dotati di VOCI! Finalmente un cast che da nessuna parte, neppure fra i comprimari, lasciava a desiderare.

Ildar Abdrazakov un Attila stratosferico, con la vera cavata del basso, che non soffia i gravi profondi, ma li canta! Felicità per l’orecchio e per l’anima (oltre che per gli occhi femminili): una voce che sembrava dotata di fiati infiniti, precisa, mai sopra le righe, misurata, dizione perfetta, non si è persa una parola. Meraviglia anche d’interpretazione. Le premesse chi scrive le aveva viste a Vienna, in un rossiniano Mustafà dalle agilità che definire perfette è dire poco e dalla debordante simpatia: il buongiorno si vede dal mattino e si concretizza anche nel tragico, oggi, in un Verdi spettacolare.

A fargli da contraltare, il generale romano Ezio di George Petean. Straordinaria voce baritonale dei nostri giorni, verdiana a pieno titolo e in carriera internazionale al galoppo. Ad un certo punto, al duetto del prologo, non si sapeva bene chi dei due, tra lui e Abdrazakov, possedesse vocalmente più vigore e potenza, con proiezioni da manuale e fusione perfetta dei due registri vocali. Grandissimo sotto ogni aspetto, quindi, anche l’Ezio di Petean, al debutto al teatro alla Scala.

Si sarebbe gradita un po’ più guerresca ed espressiva, ma anche più modulata nei piano l’Odabella della spagnola Saioa Hernández, anch’ella al debutto alla Scala e nel ruolo, ma ottima scelta comunque da inserire in un cast di tale livello, cosi come il Foresto già collaudato di Fabio Sartori.

Ineccepibili i comprimari, tra cui spiccava l’Uldino di Francesco Pittari e il ben timbrato Leone di Gianluca Buratto. Ottimi il Coro e il Coro di Voci bianche del Teatro alla Scala sotto la guida di Bruno Casoni.

Un Attila epocale per i nostri tempi (lineari) da terzo millennio, che lascerà il segno, tanto quanto lo lasciò quello diretto da Muti con Ramey/Attila e Zancanaro/Ezio nel 1990. Niente a che vedere l’una produzione con l’altra, ma fondamentali entrambe.

E per tornare alla produzione odierna nella sua totalità, si ritorni anche alla regia, curata da Livermore allo spasimo. Il livello qualitativo è stato altissimo e tale si è mantenuto per tutto il corso dell’Opera. Le soluzioni registiche, coadiuvate dalle scene e di rara suggestione di Giò Forma e dai costumi curatissimi di Gianluca Falaschi, sono culminate perfino nella ricostruzione dell’affresco di Raffaello nella Stanza di Eliodoro nei Musei Vaticani, che raffigura l’incontro di Attila con papa Leone Magno. Tutto l’insieme si è dimostrato di indubbia suggestione e ha creato atmosfere evocative, di gusto cinematografico, anche con varie citazioni da film d’autore, con l’uso del modernissimo mezzo video di D-wok e le luci studiate alla perfezione da Antonio Castro.

Forse un po’ troppa carne al fuoco, quanto a soluzioni visive: belli i tableaux vivents, soprattutto quello onirico raffaellesco, meno coerenti i video retroattivi della storia di Odabella, anche se esplicativi e molto ben girati, qualche fucilazione in eccesso con tanto di fragore dello sparo. Però, cosa si vuole di più? Soddisfatti tutti, i presenti, coloro che guardavano in televisione e finalmente anche i telespettatori in streaming, che per la prima volta hanno avuto accesso allo spettacolo; sacrosanto diritto di chi paga il canone, ma anche dovere dei grandi Teatri internazionali a cui la Scala si fregia a pieno titolo di appartenere.

Natalia Di Bartolo

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