Review: DER FREISCHÜTZ al Teatro alla Scala di Milano

Review: DER FREISCHÜTZ al Teatro alla Scala di Milano. Dopo quasi vent’anni torna l’opera di Carl Maria von Weber.

By Lukas Franceschini – 


Milano, 20 ottobre 2017.

Dopo quasi vent’anni torna nella sala del Piermarini Der Freischütz di Carl Maria von Weber, emblema dell’opera romantica tedesca, rappresentato in prima assoluta alla Konzerhaus di Berlino il 18 giugno 1821.

Il trionfo che l’opera ebbe alla prima determinò in breve tempo una rapida diffusione, l’accoglienza parigina del 1841, altrettanto trionfale, decretò il definitivo successo europeo. La trama dell’opera è tratta da leggende popolari tedesche e molte delle sue arie furono ispirate dalla musica popolare tedesca, pertanto la sua identità nazionale e l’aspro temperamento emotivo sono fattori che hanno determinato il concetto di opera nazionale tedesca, che al tempo voleva contrastare il modello del melodramma italiano, il quale aveva solide radici in area germanica. Nel Freischütz accanto al Lied vocale e al valzer lento, Landler, entrambi originari del folklore d’oltralpe, coesiste pure una forma della tradizione italiana. L’aspetto naturale dei boschi, delle montagne s’interseca con la fiaba (anche truce) per esaltare un amore dolce che diventa simbolo di serenità e intimità anche se nato nella fosca e infernale valle del Lupo, la quale esprime una dimensione sovrannaturale e misteriosa tipica del primo romanticismo. L’opera è modellata sul principio non nuovo del Singspiel con dialoghi parlati, ma emerge in primo luogo un’overture di espressiva unità tematica con tutti motivi che ricompaiono in seguito nella partitura. Non secondaria è la magia sensoria ed evocativa del suono strumentale che è ripetuto con una frammentazione geniale durante gli esorcismi di Kaspar.

La nuova produzione presentata al Teatro alla Scala, regia di Matthias Hartmann, scene di Raimund Orfeo Voigt, costumi di Susanna Bisovsky e Josef Gerger, si lascia guardare ma non entusiasma, anzi fa rimpiangere la precedente creata da Pier’Alli. Seducono i grandi tronchi d’albero che creano una scena boschiva anche affascinante, si apprezzano i costumi ispirati alla più tradizionale Boemia, il fuoco vero che illumina la gola del Lupo durante l’esorcismo è sinistro come tutta la scena, tuttavia questo spettacolo offre un’idea del già visto e di uno sviluppo poco profondo. Pur essendo sfarzosamente realizzato, è disarmante nella realizzazione degli interni con dei tubolari illuminati più idonei a un mondo moderno ed elettrico che al romantico ambiente della foresta e delle montagne. Dal punto di vista drammaturgico il regista Hartmann si limita ad abbozzare ma non trova una lettura personale per identificare i personaggi, spesso lasciati a se stessi, ad eccezione del demoniaco Kaspar, che regge la grande scena della gola boscosa in maniera straordinaria.

La direzione è caratterizzata da un estremo lirismo, però ispirato più al patetico che al fantasioso affresco di colori e d’indicative pagine descrittive della vita di paese, al sovrannaturale e all’invenzione melodica solista, nella quale il direttore trova terreno più consono. Tuttavia la direzione di Chung è ottimamente cesellata, in ogni angolo, ma mai veramente emozionante. L’orchestra della Scala è in grande serata per coesione di suono e timbro, segue il concertatore alla perfezione in una lettura che ha anche dell’incantevole, ad esempio il leitmotiv di Agathe, ma che non esprime vigore e sovente con tempi molto allargati, che a mio avviso propende per una solennità opinabile.

Stupefacente la prova del Coro, diretto da Bruno Casoni, sia nella bella caratterizzazione del canto popolare sia nelle grandi scene d’assieme in particolare il finale.

Il protagonista Max di Michael Konig, ha voce poco squillante, molto ridimensionata ed è piuttosto ruvido nell’emissione. Meglio l’Agathe di Julia Kleiter, soprano di ottime proprietà, la quale è particolarmente emozionante per spessore lirico-intimistico nella seconda aria, mentre nella cavatina, seppur cantata con solida linea, trova qualche difficoltà espressiva per mancanza di spessore.

Eva Libeau è una frizzante Annchen scenicamente ma la voce è molto limitata e talvolta debole, tuttavia è accettabile.

Gunther Groissbock, Kaspar, è un attore impressionante, mefistofelico e insinuante, vocalmente avrebbe anche i requisiti per rendere il ruolo in maniera rilevante ma lacune tecniche denotano a tratti un’emissione grossolana e un registro acuto sfibrato.

Bravo Stephen Milling, l’Eremita, voce possente e ben calibrata, preciso e brillante il Killian di Till von Orlowsly, professionale il Kuno di Frank van Hove, sommario l’Ottokar di Michael Kraus.

Molto bravo il gruppo delle quattro damigelle della sposa, composto da Céline Mellon, Sara Rossini, Anna-Doris Capitelli, Mereike Jankowski.

Pubblico piuttosto pacato durante l’esecuzione ma prontamente solerte al termine nel decretare un buon successo a tutta la compagnia.

© Lukas Franceschini

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