Review: IL FLAUTO MAGICO al Teatro Regio di Torino

Review: IL FLAUTO MAGICO al Teatro Regio di Torino,  Die Zauberflöte di Mozart, diretto da Asher Fisch, con Markus Werba Papageno.

By Natalia Di Bartolo © DiBartolocritic – 


Non giovano a Die Zauberflöte di Mozart né tronfi afflati germanici, né troppa leggerezza da favoletta: è un capolavoro di imperscrutabile profondità, che miscela il Singspiel all’Opera seria. L’esecuzione del 16 maggio 2017 al Teatro Regio di Torino, presentata col titolo in italiano, “Il flauto magico”, mi pare che in questo senso abbia sfiorato la perfezione.

Tale perfezione, secondo i miei parametri personali, mi si attesta nella memoria al lontano 1992 al teatro Massimo Bellini di Catania, con il compianto Spiros Argiris sul podio: fu il mio “primo” Flauto magico, dopo averne sorbiti un’infinità in piena noia. Probabilmente non che il grande Argiris avesse colto in toto la perfezione di Mozart, ma ritengo che ci fosse andato molto vicino.

Altrettanto ha saputo fare, forse con maggiore cognizione di causa di scuola teutonica, il M° Asher Fisch, a Torino. Specialista nel repertorio tardo-romantico di matrice tedesca, Il M° Fisch, tornerà il 31 maggio p.v. a dirigere l’Orchestra del Teatro Regio per un concerto dedicato a Richard Strauss; il che la dice tutta sulla sua competenza mozartiana. Dall’entusiasmo nell’ouverture frizzante, al suono pieno e teatrale ma delicato, che ha seguito nelle dinamiche il suono della lingua tedesca, la sua direzione del Singspiel mozartiano è stata da manuale. Polso fermo, tempi brillanti, leggero quando servisse, serio quando l’opera virasse verso il serio, ha colto in pieno la lezione del suo maestro, il grande Daniel Barenboim, dimostrandosi “artigiano” nelle prove, ma “re” sul podio. La magnifica orchestra del Regio sembrava galvanizzata. Ma certo! Quando sul podio c’è chi sappia quel che ha in mano da dirigere, anche i professori sono motivati; e si sente.

L’alchimia, poi, si rende perfetta quando a cotanta direzione si unisce uno stuolo d’interpreti di prim’ordine: è accaduto anche questo. Un mix sonoro tra buca e palcoscenico che ha tenuto gli spettatori ben svegli e attivi, facendoli applaudire a scena aperta molte e molte volte e tributare un’ovazione al finale a tutti gli interpreti.

Per cominciare a parlare degli interpreti, appunto, viene l’imbarazzo della scelta, ma trovo che il protagonista assoluto sul palcoscenico di Torino sia stato il Papageno di Markus Werba. L’ennesimo Papageno di un artista che ne ha fatto il filo conduttore della propria carriera, ma che adesso lo va centellinando, rispetto ad altri ruoli di un repertorio che è divenuto vastissimo, promettendone uno venturo al Metropolitan Opera di New York. A Torino il Werba ha dato prova di “essere” Papageno. Impressionanti la competenza vocale, la resa della parte, la scioltezza e la padronanza scenica, in una regia di Roberto Andò, ripresa abilmente da Riccardino Massa, che lo portava anche ad interagire col pubblico, strizzando l’occhio al “barolo”, sedendosi in braccio ad una spettatrice di prima fila, fino ad abbracciare il Maestro scendendo nel golfo mistico. Era lui stesso, poi, che suonava il flauto e pure il glockenspiel, che dà i suoni argentini inconfondibili che sottolineano il carattere del personaggio.

Al fianco di Werba e notevole per il centro ed il colore, la Pamina di Ekaterina Bakanova; molto gradevole e ben emesso il Tamino di Antonio Poli; più disinvolta scenicamente che vocalmente la Papagena di Elizabeth Breuer; ottimo il Sarastro di Antonio Di Matteo; ma si giunga, ovviamente, alla regina della notte, la Königin der Nacht, la tremenda Astrifiammante.

A Torino, la Mutter crudele e severissima, che non precipita però nel finale tra “i cattivi”, tutti graziati in questa produzione, era il soprano Olga Pudova. Notevole, non c’è che dire: la parte è difficilissima, si sa. Il FA sovracuto c’era tutto e non solo toccato, ma anche girato. Buona la pronuncia, ben delineate le agilità, vocalizzazione però preceduta nei momenti più difficili dall’emissione silente del fiato. Lucia Aliberti ne era maestra. Ma non è detto che sia una buona soluzione…Salvaguarda le corde e porge il suono senza “urti”? Forse, ma non è gradevole e personalmente trovo che non sia neanche molto elegante. La prestazione della Pudova, però, è stata assolutamente apprezzabile ed apprezzata dal pubblico plaudente. Il suo strumento è di gran bella qualità e il soprano sa usarlo comunque con cognizione di causa. Forse più bella la prima scena di “O zittre nicht, mein lieber Sohn” al primo atto, che la successiva, quella celeberrima di “Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen”, al secondo atto. La prima scena della regina è meno conosciuta, ma altrettanto difficile e si renda merito alla Pudova di averla resa con pregnante vocalità e presenza scenica.

Tutto il resto del cast era di gran livello, compresi i tre fanciulli, istruiti, come il magnifico Coro del Regio, da Claudio Fenoglio.

Intelligente e coinvolgente, dunque, la produzione dei suddetti Roberto Andò e Riccardino Massa, con le scene e le luci di Giovanni Carluccio e i costumi fantasiosi di Nanà Cecchi. Tradizionale, un po’ onirica, favolistica, come prima si accennava, ha fatto interagire i personaggi col pubblico e ha visto nel finale precipitarsi in platea tutti gli interpreti. Era anche ben studiata nei riferimenti esoterici all’antico Egitto che sono del Sarastro e sottendono tutta una filosofia sulla quale si sono sparsi fiumi d’inchiostro, ma che qui sarebbe fonte di noia per il lettore sottolineare.

Si sottolinea, invece, come in definitiva, la serata mozartiana a Torino sia stata di gran livello sotto ogni aspetto e che Amadeus da lassù se ne sarà certamente compiaciuto.

Natalia Di Bartolo © DiBartolocritic

PHOTOS © Ramella&Giannese – Edoardo Piva