Review: MARIA STUARDA di Donizetti a ROMA

Review: MARIA STUARDA di Donizetti a ROMA, diretta dal M° Paolo Arrivabeni.

By William Fratti


Roma, 28 marzo 2017

Andrea De Rosa è un regista che si potrebbe definire minimalista. Nei suoi spettacoli non c’è mai “troppo” e spesso tende a quel carattere basico ed essenziale che vuole concentrare l’attenzione su un personaggio o un gesto. In questa Maria Stuarda la semplicità regna protagonista, in un allestimento che prevede una scenografia e un’attrezzeria quasi assenti, ma mai si percepisce un vuoto o una mancanza. I solisti, molto ben vestiti da Ursula Patzak, compiono una serie di sguardi, gesti, movimenti che rapiscono, in perfetta armonia musicale con la partitura. Le scene di Sergio Tramonti, seppur minimal, ci sono e sono molto efficaci e funzionali nel raccontare la prigionia di Maria che si evolve verso il patibolo. Ottime le luci suggestive di Pasquale Mari.

Eccellente la direzione di Paolo Arrivabeni, che pare avere trovato il punto giusto nell’interpretazione di questo Donizetti. I suoni precisi, puliti e mai sovrastanti evidenziano i caratteri melodici del belcanto, senza rallentare troppo nei passaggi patetici, ma lasciando spazio ai fraseggi e ai colori, in un evidente dialogo continuo col palcoscenico. Al direttore va riconosciuto anche il pregio di avere optato per una versione integrale con tutti i da capo, approfittando di belle e interessanti variazioni. Ottimo il Coro dell’Opera di Roma preparato da Roberto Gabbiani.

La giovane Roberta Mantegna, allieva della Fabbrica dell’Opera, mostra una vocalità davvero interessante, rotonda nella sua leggerezza, con quel poco di acidulo che la rende ancor più accattivante e le dona carattere. La linea di canto della sua Maria è piacevolmente omogenea e sa prodursi in sfumature, trillini e volatine che dimostrano buona preparazione. Peccato per la totale assenza di sovracuti e per la mancanza di pathos nella bellissima preghiera di terzo atto, pagina di inarrivabile splendore.

Buona anche la prova di Carmela Remigio nei panni di Elisabetta anche se, non per la prima volta, si riscontrano certe difficoltà quando il soprano interpreta ruoli così drammatici – nella tessitura oltreché nell’accento – andando a cercare suoni che non le appartengono naturalmente e che poi rischiano di renderla afona. La performance è comunque positiva, soprattutto sotto il profilo dell’interpretazione del personaggio. Sarebbe molto interessante ascoltarla in una esecuzione filologica della parte di Maria.

Paolo Fanale è un Leicester incantevole. Il suo gusto classico trova un compimento finissimo nel belcanto italiano, anche in questo ruolo al limite del possibile, scritto per tenorino di grazia e che presumibilmente all’epoca della composizione era cantato diversamente. Oggi, col raddoppio dell’orchestra e una certa tradizione lirica alle spalle, cantare una lunga serie di duetti e ariette con una tessitura che si muove continuamente tra la zona delicata del passaggio e gli acuti, tra fa diesis e la, con punte al si bemolle, do e re naturale, non è certo un compito facile. Diversi grandi artisti, più o meno recentemente o nel passato, hanno avuto problemi con questa parte, oppure hanno addirittura rinunciato. Fanale la prende per il verso giusto, cantando con classe, senza mai forzare, restando sempre naturale ed omogeneo, con una linea di canto morbida che arriva facilmente ai numerosissimi sovracuti, tutti intonatissimi, senza lasciare intravedere alcuna tensione vocale. Il saper amalgamare la dolcezza con l’eroicità esprime indubbiamente un valore aggiunto al suo fraseggio.

Ottimo il Cecil di Alessandro Luongo, abbastanza efficace il Talbot di Carlo Cigni, ben centrata l’Anna di Valentina Varriale, anch’essa allieva della Fabbrica.

 

William Fratti

PHOTOS © YASUKO KAGEYAMA