Review: DON CARLO al Carlo Felice di Genova

Review: DON CARLO al Carlo Felice di Genova, diretto dal M° Valerio Galli, in una serata con molti debutti, dedicata a Daniela Dessì.

By Natalia Di Bartolo © DiBartolocritic


Tutto un debutto il Don Carlo di Giuseppe Verdi, versione 1884 in quattro atti, a Genova il 21 aprile 2017 al teatro Carlo Felice. Una serata dedicata alla memoria di Daniela Dessì, che avrebbe dovuto ricoprire il ruolo di Elisabetta, una serata di debuttanti nell’opera verdiana, tra cui, per primo, il direttore d’orchestra, il M° Valerio Galli.

Se consideriamo che non meno del 70% della riuscita di un’opera sta nella corretta direzione d’orchestra, un debuttante verdiano come il M° Valerio Galli ha sorretto un vero macigno, ma con non poco sforzo. Proveniente da un imprinting esclusivamente o quasi pucciniano, il Direttore si è impelagato in un’impresa titanica, che avrebbe fatto tremare le ginocchia a chiunque, anche ai direttori più blasonati.

Risultano dalla sua biografia, brevi “contatti” verdiani con “Il Trovatore “ e “Un ballo in maschera”…Nient’altro. Allora bisogna convenire che approcciarsi al Don Carlo, capolavoro monumentale, in una fase così anticipata rispetto a quello che dovrebbe essere il normale sviluppo di una carriera direttoriale riguardo alle opere di Giuseppe Verdi è stato quanto meno azzardato. Chi scrive pensa che prima di arrivare a governare debitamente un’opera come il Don Carlo, un direttore, sia pure relativamente giovane (il Maestro Galli ha 38 anni) debba accostarsi a Verdi con timore reverenziale e iniziando da opere ben più note (di più facile, in Verdi, non c’è proprio niente) e quindi anche più brevi e comunque più collaudate, se non altro anche all’ascolto. Il Direttore può aver ascoltato anche l’opera omnia riguardante il Don Carlo, ma prima di renderlo proprio occorrerà ancora molto tempo, molta strada fare e soprattutto molta umiltà.

La sua direzione, in definitiva, quindi, si è dimostrata discontinua, a tratti slegata. La resa agogica addirittura ne veniva coinvolta e alterata. Il “tutto forte” da tutte le sezioni era pesante da ascoltare, gli attacchi non arrivavano, a volte sembrava di essere in levare anziché in battere e viceversa. Una squadratura scolastica, la mancanza di dinamiche adeguate e un insieme confuso e disarmonico caratterizzavano il tutto. I cantanti, poi, a momenti, dettavano legge sovrastando la direzione; a volte, invece, era come se restassero soli e smarriti sul palcoscenico. Nei concertati è accaduto anche questo.

Dunque è consigliabile per il Direttore Galli, prima di affrontare di nuovo il capolavoro verdiano, di farsi un bel po’ di gavetta, magari dalle parti in cui Peppino è nato ed è venerato come una reliquia. Non si sa bene, se avesse diretto questo Don Carlo in quelle contrade, come sarebbe andata a finire con la falange peppiniana degli ultras…

Eppure il capolavoro verdiano è un panzer e ti prende, c’è poco da fare, anche perché il cast era di debuttanti, ma solo parzialmente.

Al debutto nel ruolo anche la più “debole” in scena, la Elisabetta di Svetla Vassileva, che ha reso un personaggio senz’anima, nonostante cercasse di essere ligia ai dettami registici, che a volte, poi, non erano così aderenti al testo del libretto. E, a proposito di testo, la bella cantante bulgara dovrebbe ripassarsi meglio le parole, a volte ha pure scambiato il verbo avere con il verbo essere e si è inventato qualche termine: in Italia gli ascoltatori se ne accorgono! La voce, poi, è potente, anche troppo. Quando si possiede una voce grande bisogna saperla modulare e non spingere come una forsennata, oltretutto senza motivo, soprattutto al primo atto. Filati inesistenti, piano assenti o quasi, espressività da tutt’altra parte. Un soprano che, tutto sommato, però, potrebbe essere una buona Elisabetta, e che quindi necessita di maturare ancora un bel po’ la parte e soprattutto d’immedesimarsi in ciò che canta.

Lode a questo proposito al tenore venezuelano naturalizzato spagnolo Aquiles Machado, nei panni del protagonista Don Carlo, che, pur non avendo una voce particolarmente brillante, soprattutto negli acuti che vibravano un po’ troppo, è entrato in parte ed ha beccato in pieno il personaggio. Questo fa moltissimo ed il risultato è stato credibile. La figura di Don Carlo non è facile da rendere: va adeguata anche al concetto spicciolo di “cane bastonato”, che è difficile da cogliere. Pochi tenori ci riescono, spesso presi dall’impegno vocale e dall’albagia da protagonista. Qui, invece, c’era tutto, sentito ed espresso.

Un altro debuttante, Riccardo Zanellato, Filippo II, era molto preso dalla parte vocale e meno da quella scenica. Un maggiore senso di algida, arrogante regalità non gli starebbe male: l’imponenza fisica c’è tutta, quella vocale un po’ meno, soprattutto nei gravi profondi, ma il suo “Ella giammai m’amò” è stato ben cantato. Però la parte di Filippo va ben al di là di questo celeberrimo brano ed anch’egli ha ancora molto da lavorare su questo personaggio, che spesso è la vetta per un basso, quella inseguita e perseguita da una vita. Ma lo Zanellato ha le potenzialità per arrivarci anch’egli, mettendolo a fuoco, dosando meglio voce e scena e amalgamando meglio il tutto.

Molto gradevole, con un bellissimo legato e una presenza scenica appropriata il Rodrigo di Franco Vassallo, che anch’egli, come il Machado, ha azzeccato in pieno lo spirito del personaggio.

Dulcis in fundo, un vero monumento della lirica di ieri e ancora di oggi: la Eboli di Giovanna Casolla, che, nonostante la staticità scenica che denuncia anche una scuola d’altra epoca, ha ancora voce da vendere.

Piuttosto chiara la vocalità da basso del grande inquisitore Marco Spotti, ma del tutto corretta e apprezzabile; altrettanto quella di tutti gli altri interpreti in scena. Bene il Coro del teatro genovese, guidato da Franco Sebastiani.

La produzione diretta da Cesare Lievi, nell’allestimento in coproduzione tra Fondazione Teatro Carlo Felice, Fondazione Teatro Regio di Parma e Auditorio de Tenerife “Adán Martìn”, era marmorea, di aspetto monolitico, ma gradevole nel complesso e la regia, con qualche défaillance rispetto al libretto, era curata. Oltretutto, al finale, finalmente Don Carlo viene trascinato nel sepolcro dal nonno Carlo V, che appare in tutta la propria regalità: non lo fa più nessuno! Regia tradizionale, quindi, che ha dato qualche tocco d’effetto, come nelle ombre cinesi mascherate della festa, nella scena I del secondo atto, così come nell’Autodafè, che è stata gestita correttamente, riguardo soprattutto alle masse.

Le scene di Maurizio Balò viravano sui toni del marmo bianco, i suoi costumi vi spiccavano di scuro e le luci ben dosate di Andrea Borelli hanno reso fin dall’inizio la corretta atmosfera chiesastica e quasi sepolcrale che caratterizzava l’intera messa in scena.

Una serata potenzialmente di livello che, se meglio diretta, avrebbe brillato nel cartellone del teatro genovese.

 

Natalia Di Bartolo  © DiBartolocritic

PHOTOS © Teatro Carlo Felice| Marcello Orselli