FALSTAFF al teatro alla Scala di Milano

FALSTAFF al teatro alla Scala di Milano, Zubin Mehta trionfa, Ambrogio Maestri protagonista.

Review by Lukas Franceschini —


Milano, 15 febbraio 2017.

Un nuovo Falstaff, ultima opera di Giuseppe Verdi, è allestito alla Scala quale terzo titolo della stagione 2016-2017.

L’allestimento proviene da Salisburgo (2013) e fu acquistato “in saldo” dalla Scala assieme ad altri spettacoli, Don Carlo già rappresentato e i prossimi Maestri Cantori. L’unica domanda e senza polemica è: che fine ha fatto il recente spettacolo di Robert Carsen, coproduzione Scala? Oltre ad essere un allestimento bellissimo, che pubblico e critica hanno lodato e applaudito, sarebbe un gran peccato non poterlo rivedere, anche se nella sala del Piermarini è già stato rappresentato in due edizioni.

Il Falstaff visto e ascoltato oggi si avvale della regia di Damiano Michieletto, le scene di Paolo Fantin e i costumi di Carla Teti, nuovi e più attuali rispetto a Salisburgo (così dicono i meglio informati). La concezione del regista è decadente, infatti, in questo Falstaff si sogna tornando indietro nel tempo, quando il protagonista, oggi ospite della dimora di riposo “Casa Verdi”, era in carriera e trionfava sui palcoscenici. Un ritorno alla giovinezza. Idea originale e bella, che trova spazio in un Verdi sempre presente, dal quadro appeso alle pareti, ai brani suonati al pianoforte all’inizio dell’opera, nello squarcio di vita quotidiana dentro la casa di riposo. Il protagonista è disegnato in maniera infantile, un vecchio buono e sognatore che passa le giornate sul divano sorseggiando vino e sfogliando l’album dei ricordi. Tutti gli altri personaggi entrano dalla finestra come dei folletti che ruotano intorno a lui, e ripercorrono o pagine vissute o giocano nel sogno idilliaco ma amaro. Qualche scena è veramente azzeccata. Quando Falstaff dice “Vado a farmi bello” porta in scena un vecchio baule con dentro i suoi costumi, è solo attraverso il passato, la giovinezza che trova il senso del piacere, oggi monotono e senza stimoli. Oppure, quanto intona la cantilena “…tutto declina… Va’ vecchio John…” ha in mano il celebre ritratto di Verdi staccato dalla parete. Non meno suggestive alcune scene del “sogno”, cioè l’opera stessa, che si fonde con la vita quotidiana della casa di riposo. Commuovente che durante il duetto Fenton-Nannetta, si renda concreto visivamente la stessa scena tra due anziani innamorati. Un limite di questo spettacolo è dover immaginare quello che non c’è, il parco di Windsor, la taverna, la caduta nel Tamigi, è una molteplice situazione di citazioni che si addice poco quando è il teatro a porre la marcia. Non ultima il video sulla fuga finale, mi è parso disturbasse un momento musicale elevatissimo. Aspetti anche opinabili, ma sicuramente Michieletto con questo Falstaff si riscatta enormemente dal più discutibile Un ballo in maschera di qualche anno fa. Elegante, precisa e minuziosa alla perfezione la scena di Paolo Fantin, elegante e rifiniti i costumi di Carla Teti, affascinanti le luci di Alessandro Carletti, bellissimi i video di Roland Howart.

Chi trionfa e sorprende in questa produzione è il maestro Zubin Mehta. Le sue ultime salite sul podio, specie a Firenze, furono contraddistinte da una sommaria routine e rilassata concertazione. Qui alla Scala abbiamo ritrovato il Mehta dei vecchi tempi, autorevolissimo direttore, raffinato interprete, magnifico coordinatore. Coadiuvato da un’orchestra in splendida forma, anche se ridotta nell’organico, esegue una lettura elegante, ricca di colori e sfaccettature armoniche, ma sempre con attenzione alla sobrietà degli accenti, e senza mai eccedere in smisurati eccessi. Un effetto quasi cameristico, un Falstaff da salotto, una delizia.

Il protagonista era Ambrogio Maestri, il Falstaff per antonomasia degli ultimi tre lustri, che qui ritroviamo ancora istrione e sfaccettato nell’interpretazione, quasi da manuale con l’aggiunta del physique du rôle, ma meno efficace nel canto che stranamente era spento, poco ricercato nel colore e sovente risolto con il parlato.

Più valente il Ford di Massimo Cavalletti, rifinito nel fraseggio ed espresso con voce intensa e ben amministrata. Francesco Demuro, Fenton, evidenziava lacune tecniche che determinavano un’esibizione precaria e sfuocata, pur avendo a disposizione una voce rilevante.

Nel settore femminile primeggiava Yvonne Naef, una Mrs. Quickly dirompente e simpatica mai sopra le righe, assieme alla Nannetta di Giulia Semenzato, cantante molto diligente musicalmente ma senza particolari abbandoni vocali. Carmen Giannattasio, Mrs. Alice Ford, è ottima interprete, anche se la voce manca di peculiare spessore, molto professionale la Meg di Annalisa Stroppa.

Ottime le altri parti, a cominciare da Gabriele Sagona e Francesco Castoro, rispettivamente Pistola e Bardolfo, che si distinguevano per un ottimo equilibrio interpretativo e vocale, e infine, ma non ultimo, lo strepitoso Dott. Cajus di Carlo Bosi, il quale forniva eccellente caratterizzazione scenica e vocale, limpida e precisa, di un personaggio irresistibile e in questo caso onorato con gloria. Nell’insieme è doveroso rilevare che tutto il cast era particolarmente ispirato dal disegno registico fornendo un’ottima resa teatrale.

Bravissimo il Coro del teatro alla Scala diretto da Bruno Casoni.

Pubblico non particolarmente vivace negli applausi, tolto una sincera accoglienza al termine per il M.o Mehta, ma attento e compiaciuto nell’insieme per tributare un convinto successo alla produzione.

Lukas Franceschini

PHOTOS © Teatro alla Scala | Brescia e Amisano