MADAMA BUTTERFLY al Teatro alla Scala di Milano

Review by Natalia Di Bartolo © dibartolocritic  —


Milano, 7 dicembre 2016 —

L’immenso impegno che sottende una produzione operistica è forse poco conosciuto e riconosciuto. Non tutti riflettono su come la gran macchina del teatro debba funzionare come un orologio, in perfetta sinergia. Un impegno gravoso, idoneo ad essere messo a punto alla perfezione soprattutto nei grandi teatri che abbiano capacità di compiere sforzi produttivi non indifferenti.

Ambiziosa a vedersi, ma soprattutto grandiosa ad ascoltarsi la produzione di Madama Butterfly di Giacomo Puccini messa in scena il 7 dicembre 2016, data tradizionale d’inaugurazione della Stagione per Sant’Ambrogio, al teatro alla Scala di Milano, prova che quanto sopra descritto debba necessariamente essere frutto d’estremo impegno e grande professionalità. E qui il grande teatro milanese può fare scuola.

E’ la Madama Butterfly nella prima, discussa versione in due atti del 1904 ricostruita da Julian Smith, quella del clamoroso fiasco pucciniano, che il M° Riccardo Chailly ha riproposto al pubblico, rendendone tutto il valore con una credibilità assoluta: storcano o meno il naso coloro che preferiscono la versione “canonica” (la definitiva, in realtà, non esiste, perché Puccini rimaneggiò l’opera più volte), l’esperimento di Chailly si è dimostrato interessante e comunque di valenza documentaria e storica non indifferente.

Il M° Riccardo Chailly

A parte il fatto, ovviamente, che Chailly è un asso del podio: la sua bacchetta direttoriale in Puccini ha saputo tirar fuori coloriti mirabili, le dinamiche della splendida orchestra della Scala sono state variegate e modulate con l’accuratezza degna di un grande pittore, ma con una potenza ed una padronanza musicali assolute, senza indulgere né a rallentamenti né ad inutili sottolineature lacrimevoli. Profonda l’immersione dello spettatore nelle parti orchestrali, più lunghe e diverse rispetto a quelle che di solito vengono eseguite, in un pieno coinvolgimento emotivo, alla riscoperta di frasi musicali finora dimenticate, in un incalzare tutto pucciniano del pathos, ininterrotto nella struttura in soli due atti, come il grande compositore voleva. Una perfezione da riconoscere al Maestro Chailly, al quale tutto il cast deve anche un sostegno ed un supporto di immenso valore.

Al debutto nel ruolo del titolo il soprano uruguayano Maria José Siri, che chi scrive aveva avuto il piacere di ascoltare a recensire a Vienna in una Tosca mirabile con Roberto Alagna, Dan Ettinger sul podio.

La Siri ha dato al personaggio la grazia in lei connaturata, unita ad uno studio accurato dei movimenti dal teatro Kabuki, a cui tutte le coreografie dell’opera erano pienamente e coerentemente ispirate. Ma ciò che, ovviamente, ha contato di più è stata la sua performance vocale, che si è dimostrata all’altezza della pesante responsabilità che la giovane cantante si è trovata sulle spalle ed ha gestito con grande professionalità. Lei stessa, in un’intervista, aveva definito la partitura pucciniana “crudele”, per la voce e anche per l’anima e in effetti è tale. Voce scura ma squillante, la Siri ha avuto a che fare con una tessitura per lei anche piuttosto acuta e si è districata molto bene nei gineprai pucciniani, pure nei gravi, godendo di un bel colore e di un’ottima tecnica. Debutto andato a buon fine, con applausi a scena aperta alla fine di “Un bel dì vedremo”.

Il tenore americano Bryan Hymel nella parte di Pinkerton si è dimostrato scenicamente più sbruffone del solito, supportato anche dalla versione scelta da Chailly, in cui chiama “musi” i giapponesi e paga 100 yen per avere per sé la piccola Cio Cio San, così come non si sente nella versione normalmente rappresentata. Vocalmente non perfettamente adatto al ruolo e con qualche problema di dizione, lo Hymel ha mostrato una vocalità ben dispiegata, però, nella zona acuta e un buon accordo, anche scenico, con la Siri.

Straordinaria la vocalità di Sharpless, il baritono spagnolo Carlos Álvarez, che richiamava in maniera lampante, un po’ più scura per natura, il timbro e soprattutto l’espressione del grande Giorgio Zancanaro. Un plauso particolare a questo interprete iberico dalla voce “italiana”.

Opportuna e gradevole la Suzuki di Annalisa Stroppa, che è figura non secondaria nell’andamento scenico e drammaturgico, ottimi tutti i comprimari, tra cui il Goro di Carlo Bosi, il principe Yamadori di Costantino Finucci e la Kate Pinkerton di Nicole Brandolino, in questa versione di peso scenico maggiore del solito.

Diretto dal M° Bruno Casoni, curatissimo il Coro, protagonista anche del celeberrimo brano a bocca chiusa, che ha mostrato finezza di coloriti e capacità tecniche degne del grande teatro a cui appartiene.

Un discorso a parte merita la regia di Alvis Hermanis, capace di far risaltare, per esempio, quelle scenette di genere al primo atto, come sopra si accennava a proposito di Pinkerton, a cui Puccini successivamente diede dei tagli netti; gradevole l’idea di far agire i due innamorati nel duetto del primo atto sullo stesso futon su cui madama Butterfly poi si uccide; corretto l’atto gestuale del suicidio, che, per le donne, si effettuava per tradizione con un taglio netto della gola. Nel complesso suggestiva, la regia ha rispettato la tradizione e anche per questo è stata gradita al pubblico.

Fastose sono apparse le scene dello stesso Hermanis in collaborazione con Leila Fteita, con una impostazione sontuosa, financo ridondante: strutturate a tre livelli sovrapposti, popolati da interpreti e figuranti; illuminate da sfondi video di Ineta Sipunova, animate da suggestivi movimenti coreografici di Alla Sigalova, ispirati sempre al teatro Kabuki. Scene aderenti alle geometrie del Sol Levante, ma con un occhio all’arte giapponese di fine ‘700 e ‘800 ed all’arte moderna; arricchite da paesaggi orientali ricreati e saturi di elementi scenici floreali; il tutto sapientemente illuminato dalle luci di Gleb Filshtinsky.

Ricchi ed accurati i costumi di Kristine Jurjāne, corretta l’idea di vestire Cio Cio San all’inizio del secondo atto in stile occidentale, con tanto di cammeo al collo, e di restituirla poi, soprattutto all’atto del suicidio, alla tradizione giapponese a cui appartiene.

Serata di grande suggestione artistica, dunque, a Milano, in questo freddo 7 dicembre, un Sant’Ambrogio che ha fatto da patrono anche ad una serata soprattutto di grande musica, trasmessa per televisione, per radio ed al cinema, oltre che su maxi schermi esterni al teatro.

Pubblico delle grandi occasioni unanimemente plaudente per quasi un quarto d’ora con lancio di fiori, la Siri protagonista in lacrime di commozione alle ovazioni finali, trionfo per il M° Chailly, consensi per tutti in una bella serata scaligera e un gran rifarsi a quella tradizione d’Opera italiana di cui la Scala si sente depositaria; e in casi come questi, a piena ragione, ha inteso dimostrarlo di fronte al mondo.

Natalia Di Bartolo © dibartolocritic

PHOTOS © Teatro alla Scala © Marco Brescia & Rudy Amisano