TURANDOT, gli enigmi sono tre

Review by Natalia Di Bartolo © dibartolocritic


Catania, 12 ottobre 2016

La grande Opera di nuovo in scena a Catania al teatro massimo Bellini per il prosieguo della Stagione Lirica e di Balletti 2016. Si è rientrati nel teatro del Sada dopo il periodo estivo ed una Norma salvata dalla pioggia battente sul teatro greco-romano e il rientro è avvenuto con un’opera impegnativa sotto ogni aspetto: Turandot di Giacomo Puccini. Rientro anche ambizioso alquanto, a dire la verità, poiché il capolavoro pucciniano richiede un insieme di comprovato spessore.

Alla guida della sempre apprezzabile orchestra del teatro, il M° Antonio Pirolli, che è apparso esperiente ed attento, seguendo attimo per attimo l’organico ben rinforzato, forse eccedendo a tratti nelle dinamiche soverchianti degli ottoni e inciampando nei capricci dei gong cinesi in barcaccia, ma cercando sempre di seguire gli interpreti per non sovrastarli, porgendo loro sostegno con sollecitudine in ogni istante.

Interpreti che avevano un bel peso di responsabilità da tenere sulle spalle, anche muovendosi in un allestimento dell’Associazione Arena Sferisterio del Macerata Opera Festival, per la regia, ripresa da Massimo Gasparon, le scene e i costumi di Pier Luigi Pizzi, e illuminato dalle luci intrise di netto colorismo di Vincenzo Raponi.

Si è dimostrato questo uno dei casi in cui l’allestimento scenico influisce sulla resa degli interpreti, se la regia non sia attentissima alle loro esigenze. Le scene del Pizzi erano strutturate a gradinata, incombente sul proscenio e popolata dal coro, che la riempiva per intero. La collocazione delle masse così in avanti rispetto al proscenio, anziché sfruttare correttamente la profondità del palcoscenico, non ha giovato alla compagine corale, diretta da Ross Craigmile, che, mancando spesso di sottigliezza nella modulazione e nei coloriti, riversava in platea volume in eccesso. Come troppo spesso accade, non del tutto ben amalgamate le voci, soprattutto quelle femminili. Al primo atto in particolare, in quest’opera il coro è protagonista tanto quanto gli interpreti principali: bisognerebbe tenerne debito conto.

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Quanto ai suddetti interpreti principali, nel ruolo del titolo l’esperiente statunitense soprano Susan Neves, dalle multiformi lingue parlate, ma dalla voce cantata ormai stanca e forzata in questo ruolo. Il ruolo della principessa è tremendamente difficile, si sa e, cercando lo spettatore di far a meno di farsi tornare in mente certe meraviglie anni ’70 della Dimitrova, si attenderebbe un’interprete all’altezza di raggiungere e tenere le note aspre e a tratti addirittura violente di una tessitura improba. La Neves ha dato prova di gran buona volontà, ma non ha potuto che emettere suoni pressoché gridati negli acuti più impervi, rendendo un personaggio che oltretutto, scenicamente, era poco convincente.

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E se, tornando alla voce della Neves, alcune antiche dolcezze che le si rilevavano nel timbro e nell’impostazione stridevano con lo spirito del personaggio, le stesse avremmo voluto trovare invece nella Liù algida e vocalmente rigida di Rosanna Savoia. Adatto potenzialmente al ruolo dal punto di vista vocale, il soprano campano ha ancora da limare il personaggio, sia dal punto di vista di certe asprezze sonore, lontane dalla duttilità e dalla morbidezza indispensabili per Liù che ha anche ragguardevoli filati a cui far fronte, sia dal punto di vista dell’interpetazione. Le Liù edulcorate non piacciono a nessuno, ma le Liù guerriere forse eccedono un po’ rispetto alle intenzioni dell’autore: “Liù poesia” conclude la scena della sua morte. E la definizione racchiude l’intero personaggio, anche dal punto di vista vocale.

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Una rasserenante riscoperta, invece, la voce di SungKyu Park, spesso sacrificato in ruoli che poco si adattano alla sua vocalità, carente di natura nei gravi e nei sovracuti. Nella parte di Calaf il tenore coreano ha fatto, per fortuna, accantonare il recente Pollione al teatro greco romano nella suddetta Norma. La sua voce non eccelle neanche in qualità particolari, ma una volta tanto lo si è visto “in parte” e questo ha giovato decisamente a tutto l’insieme della sua prestazione.

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Imponente per statura ma non per ieratica presenza, anche vocale, il Timur di Andrea Comelli.

Ping Pong e Pang puntuali, ben amalgamati, nonostante qualche carenza di proiezione: Guagliardo, Bocchino e Pugliese si sono mostrati corretti ma lontani dall’entusiasmare; lo stesso è avvenuto per i comprimari. Avremmo voluto in Giuseppe Costanzo un imperatore Altoum più “imperiale”, ma non è dipeso solo dalla qualità della sua voce: la regia e i costumi, non gradevoli né particolarmente curati, non gli hanno dato il giusto peso scenico, così come non lo hanno dato perfino alla principessa Turandot.

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Si è vista infatti una principessa cinese vestita con abiti di stile rinascimentale, senza un ornamento che ne sottolineasse la regalità, in una semplificazione che non è stata corretto snellimento di orpelli (spesso abusati), ma deprivazione di attributi scenici importanti.

Una nota di curiosità registica rivolta al Gasparon, più che all’interprete: il numero tre con la mano, nella gestualità cinese, si ottiene chiudendo pollice e indice, anziché, come noi occidentali facciamo, anulare e mignolo. Gli enigmi sono tre, dunque, principessa, ma…alla cinese!

Nel fare comparire Turandot in scena alla guida del coro dei bambini, il grazioso Gaudeamusigitur Concentus diretto da Elisa Poidomani, poi, la regia le ha dato forse un tocco di umanità, ma non ha centrato l’attenzione sull’apparire di solito pregnante e scenografico della protagonista, che ci si aspetterebbe, invece, essere ancora racchiusa in un bozzolo di gelida crudeltà, sciolto solo nel finale di Alfano.

E, a proposito di tale finale e della resa degli interpreti in questa, che è la parte decisamente più sonora dell’opera, la regia del Pizzi ripresa dal Gasparon, tenendo conto della limitata proiezione vocale dei due protagonisti, unita ad una tessitura di forza e di accanita competizione con le sonorità orchestrali (con tutti i salmi degli appunti pucciniani che finiscono in gloria alfaniana), avrebbe potuto facilitare loro il compito collocandoli non in cima alle gradinate, ma in posizione più bassa e ravvicinata al proscenio.

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Proscenio sul quale incombeva, invece, per l’intero svolgimento dello spettacolo, una discutibile dea Kalì d’indiana memoria, che, con le due statue in alto sul fondale, mutuate dalla settecentesca Casa Cinese nel Parco Sanssouci a Postdam, in Germania, rendeva quasi rococò e dunque assai vago e da “cineseria” l’esotismo dell’insieme, quando invece la collocazione della vicenda è posta “nel tempo delle favole”,  come recita il libretto, ma saldamente collocata a Pechino.

Serata comunque gradevole nel suo insieme, gradimento del pubblico, godimento, in ogni caso, di un capolavoro, che va in scena sempre con grande seguito da parte degli spettatori per la sua notorietà e che è stato favorito anche dalla messa in scena di una produzione in linea con la tradizione.

© Natalia Di Bartolo – operaeopera.com

PHOTOS ©Giacomo Orlando