Il Trovatore al Bellini di Catania

Review by Natalia Di Bartolo ©dibartolocritic


Catania, 5 marzo 2016 – 

Che i tempi esecutivi delle opere di Bellini siano un rebus ormai apparentemente irrisolvibile ai nostri giorni, lo si sa, purtroppo…Ma che pure i tempi di Verdi lo diventino..! Allora sinceramente nasce nello spettatore un moto interno di ribellione. Per Il Trovatore, andato in scena al teatro Massimo “Bellini” di Catania il 5 marzo 2016, è bastato un attimo fin dall’inizio per porsi in questo senso un quesito fondamentale: era Verdi quello che si ascoltava sotto la direzione del M°. Gianna Fratta?

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Era necessariamente Verdi, ma un Verdi come edulcorato per il soprano, in svenevole lentezza anche nelle cabalette, per poi riaccelerare al metronomo selvaggio nei concertati, fino a dare sfogo a roboanti finali.

Il Maestro Fratta ha sfoggiato gestualità d’alta scuola, ma dimostrato piglio inadatto ad un’operona come Il Trovatore, dove gli slanci eroici vanno debitamente sottolineati, dove i tempi vanno adeguati quanto meno alla tradizione, dove tutti coloro che cantano in scena hanno bisogno di esprimere quanto i loro personaggi offrono. E offrono tanto, ma così tanto che, senza scordare l’alta scuola, bisogna però far cantare per prima la compagine orchestrale e far sì che canti su tutti…Cosa che non è avvenuta.

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Il M° Gianna Fratta

La scuola direttoriale, sia pur alta, ha soprattutto bisogno di polso e di sensibilità per questo “genere”, oltretutto in un capolavoro pressoché “intoccabile” per la sua preziosità. L’accostarsi a Verdi presuppone anche uno slancio emotivo che la Fratta non possiede, almeno finora, ma che, con la debita esperienza, ci si augura trovi, andando ben al di là di ciò che le è consueto dirigere nella propria ancora breve carriera direttoriale e che è trasparso, implacabilmente, in ogni istante della direzione a Catania.

Ottima, quindi, l’orchestra catanese, come sempre, ma sofferente di una piattezza rigida e di una compattezza monoblocco attribuibili alla direzione matematica della Fratta, nonché di sua trascuratezza assoluta di quegli accenti fondamentali che generalmente s’intendono come “spirito” verdiano. Probabilmente il Maestro ha pensato di rifuggire così da quel tanto vituperato “zum-pa-pà” che annichilisce Verdi in mano ai direttori più beceri, ma che, in dose corretta, è invece la linfa di questa musica: in medio stat virtus; in Verdi più che mai.

Ovviamente, in questo contesto sfavorevole, il cast tutto ha cercato di trovare in sé i miracoli, ma quelli, purtroppo, non si possono fare, neanche se si possiedono le doti vocali adeguate: a maggior ragione se anche queste, com’è accaduto, latitano.

Un Manrico, quello di Angelo Villari, dotato di un timbro pastoso e adatto al ruolo, ma con problemi d’intonazione e che ha cercato il meglio da una voce sforzata negli acuti, risentendo anche di qualche vibrato problematico.

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Dimitra Theodossiou, Leonora, ha fornito al personaggio verdiano l’odierna usura vocale che la caratterizza: in particolare nei filati che si spezzavano e nella sgradevolezza negli acuti emessi con sforzo, anche dove certi abbellimenti non erano scritti (perché emetterli, allora?), o non emessi affatto (scritti o non scritti che fossero).12804082_537341886426875_279613052_n

C’è da sottolineare, inoltre, che se da un lato veniva aiutata nell’emissione dalla suddetta direzione rallentata nelle parti della protagonista femminile, poiché le si dava il tempo per respirare debitamente, d’altro canto la si costringeva a fiati lunghissimi che oltretutto stiravano al massimo consentito i tempi verdiani, forse alla ricerca di quel “lirismo” che il personaggio femminile dell’opera possiede in una certa misura, ma che bisogna essere in grado di saper cogliere da parte del Direttore, senza alterare tutto il resto né dare problemi all’interprete. Iniziativa direttoriale per mettere forse, da donna-a donna-a donna, in risalto il personaggio femminile protagonista dell’opera riservandole un trattamento “particolare” nei tempi ed “evidenziarla” su tutti? Non le si è reso, comunque, un bel servizio, in nessun senso, da parte di nessuno.

Insufficiente la Azucena di Nilda Palacios, inadatta al ruolo, nonostante il bel colore nei gravi, carente di proiezione, di carattere e di carisma. Se manca Azucena ne il Trovatore, manca la metà del pathos musicale e scenico.

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Il conte di Luna, Giuseppe Altomare, ha cercato anch’egli in se stesso il miracolo, ma non riuscendo a rendere, con voce scabra e timbro ruvido, nonostante la palese lezione zancanariana studiata con cura anche nella gestualità, le morbidezze e lo slancio necessari al personaggio, cattivo quanto basta, ma tutto tranne che suicida alla fine, come ha voluto il regista Renzo Giacchieri, autore anche di scene e costumi.

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La scena finale col suicidio del Conte di Luna

Ogni tanto ci si chiede il perché di qualche suicidio di troppo in scena e qualche volta si può trovare una giustificazione. Purtroppo, invece, in questo caso, la giustificazione è negata dal libretto stesso e si è già stati pure abbondantemente distratti da dati musicali negativamente più rilevanti rispetto alla messa in scena per starci a ragionare sopra ulteriormente.

Una messa in scena comunque routinaria, da rielaborazione di un allestimento storico non ben identificato, con una regia statica e lasciata a se stessa ed agli interpreti, in cui addirittura alcuni movimenti del coro, eseguiti a tempo, scombussolavano le masse senza alcun motivo giustificabile. Il volenteroso Ferrando di Francesco Palmieri, guidato dalla regia che all’inizio dell’opera lo ha fatto comparire tra il pubblico, ha visto il coro schierato e sacrificato sul proscenio a sipario chiuso.

Coro del teatro catanese, dal canto suo, decisamente urlante, come spesso accade in mano al Maestro Ross Craigmile, soprattutto nei momenti in cui il forte la faceva da padrone, diventando uno sgradevole fortissimo, e perfino nel sublime coro a cappella delle voci interne nella scena prima del quarto atto, laddove la compagine femminile ha dato il meglio perché l’ensemble possiede belle voci, ma che il Direttore gallese avrebbe dovuto far modulare meglio e rendere più diafana e trascendente.12790027_537341896426874_292715422_o

Nettamente oleografici i fondali scenici del Giacchieri, che davano una decisa sensazione di appartenere anche al materiale di cui l’oleografia è fatta, con una presenza di sagome cartonate di assai sgradevole effetto d’incombenza e di piattezza.

Non è tanto ciò che si trova in scena e di cosa sia fatto a contare, ma anche come e dove si decida di utilizzarlo e come venga illuminato. Un mix tra l’atmosfera orientale dell’italiana in Algeri e il boschetto cartonato di Robin Hood di Walt Disney non è la scena per il Trovatore. Meglio scena vuota, ma ben illuminata, che scena “ingombra” di sagome, illuminate senza slanci da Salvatore Da Campo.

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Costumi, sempre del Giacchieri, fortunatamente tradizionali (e forse i più concretamente riconducibili al suddetto allestimento storico), che però, con la propria apparenza volumetrica, accentuavano l’inconsistenza dei fondali.

Insomma, un Trovatore nelle intenzioni volutamente “abbagliante” (proprio nel significato letterale del termine), ma che non ha contentato gli spettatori esperienti delle prime, smaliziati e molto ben dotati di lenti schermanti. Applausi prevedibilmente assai tiepidi, quindi, da parte di un pubblico che di opere verdiane ne ha viste tante e che si aspettava e meritava decisamente di più sotto ogni aspetto.

 Natalia Di Bartolo ©dibartolocritic

 

PHOTOS: © Giacomo Orlando