Lucia di Lammermoor a Liegi, Opéra Royal de Wallonie – Review

Written by Neco Verbis —


Risulta immediato rilevare come l’insieme della produzione della Lucia di Lammermoor, andata in scena a Liegi al teatro dell’Opéra  Royal de Wallonie il 25 novembre 2015, si sia discostato in molti sensi da quella stilizzata ombra romantica, corrusca di lampi e tempeste, di fantasmi e castelli, da quell’atmosfera fortemente gotica evocata e preannunciata, fra l’altro, nell’intervista video dal regista Stefano Mazzonis di Pralafera.

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La figura interpretativa di Lucia, in particolare, è nell’immaginario collettivo eterea, impalpabile a momenti, sia vocalmente che scenicamente, pur presente con un canto di estrema difficoltà, che coinvolga tutti i registri vocali dell’interprete e ne metta a dura prova ogni abilità.

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Annick Massis, nel ruolo del titolo, dotata di vocalità multiforme, si è confermata a Liegi, se ce ne fosse stato bisogno, anche voce correttamente belcantistica, priva di portamenti sdolcinati, con un canto ben proiettato in avanti, dritto, a fuoco. La celebre artista francese ha sfoggiato acuti di una freschezza sorprendente, nonostante ogni tanto nella zona di mezzo la voce subisse qualche attimo di appannamento. Le agilità sgorgavano con una facilità che ancora oggi non si può che riconoscerle e, nello stesso tempo, con sfoggio di gravi di notevole entità e di qualche libertà nelle cadenze. In effetti la versione eseguita era quella filologicamente rivisitata. Il che, ovviamente, lontana dai virtuosismi storico-tradizionali inveterati degli innumerevoli soprani coloratura che l’hanno fatta propria, restituiva ad un soprano lirico cosiddetto “spinto” la parte originale e consentiva alla Massis di affrontarla con relativa serenità.

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Reattiva caratterialmente per natura, evidentemente, l’interprete; e il regista l’ha lasciata fare, forse anche troppo. Dal punto di vista scenico, quindi, la Massis non era pienamente Lucia. Non lo era forse perché troppo impegnata nella parte vocale; non trasmetteva quello struggimento, quella fragilità, quella dose di vittimismo, preludio alla follia, che Lucia deve possedere. Il personaggio si è così dimostrato riuscito a metà, poiché raramente l’emozione dei sentimenti ha sfiorato la precisione del risultato sonoro.

Neanche nella scena della pazzia la Massis ha dato espressività sentita al personaggio. Interpretare la donizettiana Lucia è astrarsi dalla realtà, non immergervisi, come invece è avvenuto anche per input della direzione scenica, che addirittura l’ha portata a decapitare il povero Arturo e gettarne la testa tra i convitati alle nozze. Plausibile in pugno ad Otello, la testa di un saraceno…O nelle pucciniane e ben più moderne mani di Pu Tin Pao, quella di uno sventurato pretendente di Turandot. Soluzione registica discutibile, questa, quindi, come quella, per esempio, del doppio anello fornito a Lucia da Edgardo, affinché potesse fare pendant con quello dello sposo.

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E, a proposito di Edgardo, Celso Abelo era probabilmente più a suo agio nell’epoca e nel personaggio che non la protagonista, ma non trovava sintonia emotiva con la monumentale Massis, né trovava in se stesso accenti sentiti, nel canto sia pure corretto ma, all’inizio, anch’esso non ancora a fuoco e si mostrava come spaesato, in particolare al primo atto.

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Abelo-Edgardo è diventato se stesso all’ultimo atto, quando è rimasto solo; anzi, stranamente in compagnia di una comparsa, una specie di ombra derelitta, che assisteva muta alla sua autodistruzione. Solo da “Tombe degli avi miei” il tenore spagnolo ha dato il meglio di sé, sfoggiando anche la capacità d’immedesimazione che pure in un personaggio come quello di Edgardo deve rientrare nella resa del carattere, o la mancanza lo riduce ad una pallida comparsa che, sia pur splendidamente, vocalizza.

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Il canto di Abelo, non è splendido, non è sontuoso, ma si è dimostrato partecipe e nel finale riscaldato dall’anima: ed è lì che è sbocciato lo spettacolo, che si è però concluso con una morte insolita del protagonista maschile, provocata dal crollo delle rovine del castello dei Ravenswood e di parte di quello degli Ashton. Anche qui l’inconsueto registico ha giocato la propria parte discutibile.

Non condivisibile registicamente neanche la violenza eccessiva di Enrico, che arrivava a strattonare e a spingere per terra Raimondo al primo atto.

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Il giovane Ivan Thirion, nei panni di Ashton, di bella presenza e voce ancora da identificare quanto a timbro baritonale, ha dato una resa scenica del fratello che sembrava più un carnefice che non un infido germano ingannevole, con una buona dizione, ma con imprecisioni nel testo e nella presa dei fiati, e una voce possente in pectore, ma non donizettiana, né tendente all’aura verdiana: forse da mettere a punto, soprattutto dal punto di vista della proiezione, che la mostrava come “frenata”.

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Troppo plateale, poi, il suo comportamento scenico: si è assistito alla Lucia degli spintoni e degli strattonamenti. Ci si chiede il perché registico, quando gli ingredienti per farne una edizione memorabile c’erano tutti e fra questi si distingueva l’ottima voce del basso italiano Roberto Tagliavini, Raimondo, che “era” davvero Raimondo, colto in pieno in ogni aspetto, sia nel canto che nell’interpretazione e che, grazie a questo, spiccava sull’intero cast.

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Eccessiva la sonorità nella compagine strumentale del teatro belga, come nel coro, guidato dal nuovo direttore Pierre Iodice, che ha rischiato di soverchiare, a tratti, i solisti. Nessuna colpa ai coristi né al loro direttore, ma caratteristica da imputarsi probabilmente alla concezione direttoriale complessiva dello spettacolo del Maestro spagnolo Jesùs Lopez Cobos? Probabilmente: monocromatico e compatto, troppo, per un Donizetti ascetico e impregnato di scottiana memoria, di fantasie celtiche e di tempeste del cielo e dell’anima.

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A tratti accelerati i tempi orchestrali, probabilmente per facilitare la protagonista, soprattutto alla cabaletta del primo atto; da manuale, però, l’uso della filologica glassarmonica, assai abilmente suonata e che trovava il debito risalto, finalmente, nell’intera scena della pazzia. Meno efficace un’arpa discontinua e poco fluida al primo atto, che mancava di quella capacità evocativa di delicatezza arcana che prelude al corretto ingresso in scena e relativa cavatina della protagonista.

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A rigor di tradizione italiana, che dovrebbe avere il proprio peso come qualsiasi altra d’altrettanto alta levatura, lo schema della messa in scena di un’opera come Lucia dovrebbe essere sottile come le linee del pentagramma, sia dal punto di vista musicale che da quello del puro spettacolo visivo. I costumi di Fernand Ruiz erano molto variopinti e drappeggiati, illuminati da luci altrettanto variopinte di Franco Marri e questo non aiutava a cogliere l’azione scenica.

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La scena stessa, di Jean Gui Lecat, pur interessante, simbolicamente opulenta e a due piani nel palazzo di Enrico e di angusta, scottiana pretesa nell’abituro del Ravenswood, per contro, con tanto poi di discesa dall’alto della fonte in pietra alla scena della pazzia, ha accolto uno spettacolo al quale avrebbe giovato essere snellito ed essenzializzato. Quindi non gli ha reso giustizia il ricoprirsi di panni arabescati, di damaschi, di velluti e drappi scozzesi fino a rimpinguarsi come nella festa nel palazzo del duca di Mantova. Sarebbe stato più adeguato mantenere quella ieratica sobrietà che si pensa debba far sfiorare a interpreti e spettatori, con le sensazioni auditive e visive insieme del capolavoro donizettiano, addirittura un mondo sovrastato dal paranormale.

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Le nobili invitate alle nozze illustri, che ridevano, sia pur di giubilo, nell’accentuato brusìo volutamente festaiolo al cambio, privo di sipario come gli altri, della scena terza del secondo atto, allora, mal si accordavano sia con coloro che impersonavano, sia con l’atmosfera che la musica intendeva e intende ricreare, se non addirittura creare, in una unicità che andrebbe colta appieno, non trascurandone alcun aspetto: in questo caso quello dell’ambientazione e quindi del saper “cogliere lo spirito” di un capolavoro italiano.

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Dunque, una certa pinguedine scenica ha appesantito l’Opera, infarcendola anche di una confusione nella disposizione degli interpreti e del coro che non esaltava la presenza dei protagonisti, anche visivamente.

Cattura.JPGsAd ogni modo, il gusto di chi scrive, italiano all’ennesima potenza per quanto riguarda l’opera italiana, ha riscontrato un dato fondamentale che ha siglato l’assoluto successo di pubblico di questo spettacolo di buona qualità complessiva, trasmesso in streaming in diretta e ancora visibile on line per qualche tempo: la coesione, il lavoro di ricerca dei coloriti, degli accenti e della coerenza dell’insieme. Dunque, sia pur notando ciò che sopra si sottolineava, questo risultato, che è positivo, bisogna riconoscerlo ad un’equipe teatrale di tutto rispetto, sia sulla scena che dietro le quinte.

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In definitiva, allora, se non ci si voglia addentrare oltre nei purismi e a parte le suddette sbavature registiche, dato che anche i comprimari, una volta tanto, cantavano adeguatamente, una Lucia così, dal punto di vista vocale, non si ascoltava da tempo…Ed è stato comunque un bell’ascoltare.

©Neco Verbis

 

PHOTOS OPERA ROYAL DE WALLONIE