Vincenzo Bellini: il manoscritto spagnolo de “Il Pirata”

Vincenzo Bellini: il manoscritto spagnolo de “Il Pirata” – Nel giorno della commemorazione, un articolo sul ritrovamento spagnolo – 

By Natalia Di Bartolo-


Vincenzo Bellini (1801-1835), genio musicale, fu generato e nutrito nei primi anni dalla generosa terra di Sicilia. Ricorre oggi, 23 settembre 2015 il 180° Anniversario della sua morte.

Nato a Catania il 3 novembre 1801, ivi, ancora giovanissimo, iniziò gli studi musicali;  li proseguì a Napoli al “Real Collegio di musica” di San Sebastiano, oggi Conservatorio di S. Pietro a Majella (1819). Tra i suoi maestri vi fu Nicola Antonio Zingarelli, che lo indirizzò verso lo studio dei classici.

Tra le prime composizioni del musicista siciliano, nel periodo della prima gioventù, si rilevano opere di musica sacra, alcune sinfonie e alcune arie per voce e orchestra, tra cui la celebre “Dolente immagine”, oggi nota per i successivi adattamenti per voce e pianoforte.

Presentò nel 1825, al teatrino del Conservatorio napoletano “Adelson e Salvini”,  la sua prima opera, quale lavoro finale del corso di composizione. Solo un anno dopo con “Bianca e Fernando”, arrivò il primo grande e inaspettato successo. Per motivi di assonanza con il nome del principe Ferdinando si Borbone, la censura obbligò il musicista, prima della rappresentazione al teatro di San Carlo a Napoli, a modificare il titolo in “Bianca e Gernando”.

Nel 1827 gli venne commissionata un’opera da rappresentare al Teatro alla Scala di Milano. Bellini lasciò Napoli e anche Maddalena Fumaroli, suo primo grande amore. Da allora molte delle dame più belle, celebri e affascinanti del suo tempo, tra cui il soprano Maria Malibran, sarebbero rimaste vittime del suo fascino biondo e dei suoi occhi cerulei.

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Francesco Di Bartolo (1826-1913): ritratto di VINCENZO BELLINI, acquaforte con ritocchi a bulino, Catania Museo Belliniano

A Milano andarono in scena “Il pirata” (1827) e “La straniera” (1829) ottenendo clamorosi successi. “Zaira” nel 1829, rappresentata a Parma, ottenne meno fortuna e delle opere successive le più riuscite furono quelle scritte nuovamente per il pubblico di Milano: “La sonnambula” (1831) e “Norma” (1831).

Nello stesso periodo compose anche due opere per il teatro La Fenice di Venezia: “I Capuleti e i Montecchi” (1830), per i quali adattò parte della musica scritta per “Zaira”; e la poco fortunata ma splendida “Beatrice di Tenda” (1833).

La svolta decisiva nella sua carriera come nella sua evoluzione artistica coincise con il suo trasferimento a Parigi. Qui entrò in contatto con alcuni dei più grandi compositori d’Europa, tra cui Fryderyk Chopin.

A Parigi compose numerose romanze da camera di grande interesse, alcune delle quali in francese, ma soprattutto scrisse nel 1835, anno della sua morte, per il Théâtre-Italien  della capitale francese l’opera “I Puritani”, che ottenne un grandioso successo.

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Il monumento sepolcrale di Bellini di Giovambattista Tassara nel Duomo di Catania

Ma purtroppo il destino fu crudele con il genio siciliano: lasciato dagli amici in misteriosa solitudine nei suoi ultimi giorni, morì  a soli 34 anni, stroncato, si disse, da un’infezione intestinale; si parlò addirittura di un avvelenamento. La sua morte rimane ancora oggi avvolta nel mistero.

Venne sepolto vicino a Chopin e Cherubini nel cimitero Père Lachaise a Parigi, dove la salma sarebbe rimasta per oltre quarant’anni.

Catania, sua città natale, infine lo reclamò e Parigi lo concesse. Nelle varie tappe che segnarono il ritorno in Patria, il feretro del compositore fu accolto ovunque con calore e commozione.

Giunto infine nella sua città natale, vennero celebrate le solenni esequie, a cui parteciparono migliaia di catanesi, alcuni parenti del compositore (tra cui due fratelli ancora in vita), e una folta rappresentanza di autorità civili, militari e religiose.

“Ah non credea mirarti sì presto estinto o fiore”, si legge, dal libretto de “La Sonnambula” sul suo monumento sepolcrale nella sua città natale e umanamente è vero, se si pensa quanto il compositore fosse rinomato anche per la sua bellezza.

Ma forse a poco vale che i concittadini lo abbiano riportato con gran pompa nella sua Patria, restituendolo alla sua terra, se egli vi giace oggi rischiando di non essere adeguatamente ricordato e celebrato.

Fra i grandi autori d’Opera, infatti, è quello meno rappresentato, a meno di eccezioni riguardanti “Norma”, “La Sonnambula” e “I Puritani”. Il resto del suo repertorio è raramente messo in scena, definito a torto “astruso, “ripetitivo”, a tratti perfino “ingenuo”, difficile da eseguire, vocalmente improbo e destinato comunque a vocalità ormai irreperibili sui palcoscenici del mondo.

Ma l’Arte non dimentica: il suddetto destino, quello dei Grandi, è di essere immortali. E fu così che Bellini e la sua musica fecero di nuovo notizia quando un giorno di settembre del 2013, prossimo sempre all’anniversario della sua morte, si rilevò un comunicato diramato da Madrid dalla Biblioteca Nazionale di Spagna, in cui si evidenziava come fosse stato ritrovato in quella sede un manoscritto musicale inedito del nostro autore.

A distanza di qualche anno e giusto in occasione del giorno anniversario della morte del genio catanese, s’intendono esprimere in questa sede considerazioni proprio su tale ritrovamento.

Il manoscritto belliniano de "Il Pirata", ritrovato negli archivi spagnoli
Il manoscritto belliniano de “Il Pirata”, ritrovato negli archivi spagnoli

Al di là della sorpresa e della gioia per l’evento, venne allora da chiedersi come mai ciò fosse accaduto proprio in Spagna ed a quale collezionista appassionato fosse appartenuto l’album del XIX secolo, illustrato da fotografie e disegni della Sicilia e di Malta, che nascondeva quel prezioso foglio. In ogni caso, gli studiosi spagnoli si fregiano da allora di una scoperta che andrà ancora studiata e valutata, ma che comunque è rilevante, soprattutto dal punto di vista musicologico e storico.

Felice Romani
Il librettista Felice Romani

Scendendo nel particolare, si tratta di una pagina pentagrammata su cui è tracciato uno schema di sette barre e su cui sono scritte a penna le note su due righi musicali, uno in alto sulla pagina e l’altro in basso, con una didascalia a margine del foglio, che recita: “Manoscritto di Vincenzo Bellini e dei suoi fratelli Mario e Carmelo”.

La scritta laterale non è di mano dell’autore, perché figura essere come una nota di catalogazione del reperto nell’ambito di una raccolta. La presenza dei nomi dei fratelli del musicista è comunque singolare e andrà sicuramente approfondita.

Il manoscritto è collegato all’Opera “Il Pirata”, sulla cui genesi, per via dell’epistolario di Vincenzo Bellini lacunoso in questo punto, poco si sa.

Il libretto fu tratto dal mélodrame di Isidore J. S. Taylor “Bertram, ou le Pirate”, andato in scena a Parigi nel novembre 1826, a sua volta ispirato alla tragedia in cinque atti “Bertram, or The Castle of Saint-Aldobrand” di Charles Maturin (1816).

La prima dell’Opera, supportata da un cast di gran rilievo, in cui spiccavano il celebre tenore Giovanni Battista Rubini, specializzato nel registro acuto e sovracuto, nel ruolo di Gualtiero, e, nel ruolo di Imogene il soprano drammatico di agilità Henriette Méric Lalande, ebbe un successo clamoroso. Il baritono Antonio Tamburini, altrettanto celebre e rinomato interprete, li affiancava e a lui era affidata la parte di Ernesto, alla quale appartiene la suddetta traccia inedita reperita negli archivi spagnoli.

Esaminando nello specifico il prezioso documento ritrovato a Madrid, ciò che colpisce, a parte il rilevare la presenza dei picchiettati nella prima battuta del rigo in alto e il “ripensamento” o doppia opzione nella seconda, è il rigo in basso, che riporta anche le parole del libretto del Romani.

Ci si trova al secondo atto e si tratta di “Tu m’apristi in cor ferita”(La maggiore / Fa minore / Fa maggiore),Tempo d’attacco della Scena e duetto tra Imogene (soprano) ed Ernesto (baritono), che segue immediatamente il recitativo “Arresta, ognor mi fuggi”– Allegro; precede il cantabile “Ah! lo sento: fra poco disciolta”– Larghetto (Fa maggiore); segue con il Tempo di mezzo (ripresa del tempo d’attacco) Che rechi?– Allegro moderato (Do maggiore) e prelude alla cabaletta “Ah! fuggi, spietato, l’incontro fatale”– Allegro assai (La maggiore), banco di prova, ancora una volta, delle agilità richieste al soprano protagonista.

Il manoscritto, dunque, riguarda una delle frasi musicali del baritono e precisamente la frase che reca le parole “empia madre – mal tu celi un cieco amor”, che fanno parte dell’inizio del duetto. Questi i versi completi del Romani:

(…) “Tu m’apristi in cor ferita

della tua più sanguinosa.

Empia madre, iniqua sposa

mal tu celi un cieco amor. (…)”

Dunque, non una variazione della cadenza composta sui versi del librettista per il soprano o per il tenore, come sarebbe stato più consueto, ma per il baritono, vocalità di solito non  particolarmente mirata ad abbellimenti ed agilità, rispetto al tenore ed al soprano. Ma Bellini era Bellini…

Sottolineare la presenza del Tamburini (1800-1876) nel cast della prima scaligera, allora, non è cosa di marginale rilievo. Il solista romagnolo, “basso cantante” come allora si denominava, oggi genericamente definito “basso baritono”, infatti, era idolatrato da pubblico e critica per resa e tecnica vocale, per la qualità della sua voce, bruna ma agilissima, per la sua presenza scenica, nonché per il suo gradevole aspetto.

Il baritono Antonio Tamburini
Il baritono Antonio Tamburini

È ovvio che, trovandoselo felicemente nel cast, Bellini abbia scritto la parte di Ernesto modellandola per la sua voce. Era decisamente normale che fosse così, anzi era quasi una prassi che gli autori d’Opera, Bellini compreso, scrivessero avendo presenti dei “modelli” ben precisi; quindi la parte di Ernesto, a detta di diversi studiosi, fu scritta appositamente per la voce del Tamburini.

Questo spiega un particolare importante anche nel foglio ritrovato a Madrid: i righi musicali scritti non recano l’accompagnamento, sono solo quelli destinati al cantante e le note presentano caratteristiche che richiedono un’agilità vocale non indifferente. Variazioni delle cadenze, quindi, che la voce del grande Tamburini consentiva? Oppure variazioni per qualche altro baritono altrettanto vocalmente dotato?

Ovviamente lo studio sul manoscritto prosegue da parte di eminenti studiosi, che sapranno dare risposte a molti interrogativi, ma il fatto che sia stata ritrovata una variazione di pugno dell’autore, in sé non rappresenta un’eccezione, pensando anche alla genesi dell’opera, che alla prima ebbe un finale e che subito dopo ne ebbe un altro e nella quale, dopo la rappresentazione scaligera, addirittura si arrivava a invertire le scene tra soprano e tenore.

La comunicazione ufficiale dalla Spagna del ritrovamento del manoscritto affermava che la pagina ritrovata non recava variazioni di particolare rilievo rispetto alla versione “definitiva”.

Ai tempi, i cantanti avevano l’abitudine (e il vezzo) di “scegliere” le cadenze tra quelle create dal compositore, che appositamente, a volte, oltre che scriverla direttamente come prima si accennava, modificava e ri-modificava la propria musica per esaltare le doti di questo o quel cantante. Avevano anche il “difetto” di “inventarsi” le cadenze adatte alla propria vocalità e quelle dei cantanti più famosi entravano nella tradizione, venivano trascritte ed erano eseguite da altri cantanti. Proprio per tale motivo è difficile stigmatizzare come definitive determinate parti di un’esecuzione, in particolar modo quando le frasi musicali si prestino a lasciare spazio alle singole “scelte”. Esistono addirittura delle raccolte pubblicate delle cadenze più usate, create o tramandate da questo o quel cantante e a suo nome adottate da cantanti e direttori e riconosciute ancora oggi nell’esecuzione dagli addetti ai lavori.

C’è, quindi, comunque ancora molto da verificare, riguardo pure alla suddetta affermazione delle fonti spagnole, anche perché la storia di un’Opera non si basa solo sulla partitura utilizzata per la prima rappresentazione o per le immediatamente successive (già passibili di modifiche sostanziali, come il finale in questo caso), ma va inserita in un contesto ben più ampio di repliche, riprese, rappresentazioni coeve all’autore e quant’altro, sulla partitura delle quali egli poté intervenire personalmente.

Riguardo a ciò che de “Il Pirata” originale, scaligero o poco oltre, messo in scena ai nostri giorni, si ascolta e si ascolterà sui palcoscenici, non ci resta che sperare nella serietà e buona fede filologiche dei Direttori d’Orchestra, nelle doti dei cantanti e nella decisione auspicabile, d’ora in poi, di inserire nell’esecuzione, da parte di qualcuno di loro, anche le variazioni “spagnole” autografe. Gli interpreti, non più come un tempo, non hanno granché voce in capitolo in merito alle variazioni da scegliere concordemente con i direttori d’orchestra, a meno che non siano dei mostri sacri.

Per i melomani, i suggerimenti d’ascolto registrato dell’Opera, come fino ad oggi ci è stata tramandata, non sono numerosissimi, ma possono essere collocati in epoche varie, tenendo conto delle “versioni” diverse che immancabilmente si riscontrano, delle capacità dei cantanti e soprattutto degli anni in cui le registrazioni sono state eseguite.

È fondamentale, per la scelta, tenere in considerazione la propensione o meno delle preferenze dell’ascoltatore per la “tempesta” divistica degli anni ‘50, che procurò a volte tagli ed aggiunte arbitrari alle partiture, ma anche grandi esecuzioni; rivolgersi ai direttori filologicamente attendibili degli anni ‘60-‘70, incontrando però interpreti dotatissimi ma fuori ruolo per Bellini; considerare positivo o meno l’esclusivismo direttoriale ed interpretativo che ha rischiato di travolgere Bellini e la sua produzione operistica negli anni ‘70-‘80 e che, ad avviso di chi scrive, ne ha procurato una sorta di malcelata monopolizzazione che bene non ha fatto al grande autore catanese ed alla sua musica. In tale campo, dunque, prevalga il gusto personale di ciascuno, anche se si auspica un indirizzarsi di chi ascolta verso la ripresa di assoluto rigore che caratterizza il migliore gusto filologico dei nostri giorni e dunque anche le auspicabili registrazioni di là da venire, sempre compresa la variazione “spagnola”.

Ma allora, anche alla luce di questo prezioso ritrovamento, viene spontaneo chiedersi quale sia davvero la partitura “definitiva” de “Il Pirata”, ovvero quella che sarebbe consigliabile eseguire a teatro e registrare.

Ad avviso di chi scrive, in questa, come in molte altre Opere, sia di Bellini che di altri autori, non esiste una “partitura definitiva”, ma diverse partiture “originali”. Su quest’onda di pensiero, non sapremo mai qual’è la frase musicale del baritono prescelta dall’autore nell’inizio del duetto… ma perché non lo sapeva neanche Bellini; la musica era per lui, come per tutti i geni suoi pari, materia viva, elastica, plasmabile, soggetta a ripensamenti, tagli, abbellimenti, modifiche. Così come molte altre, opera “aperta”, dunque, anche “Il Pirata”, nei limiti dell’assoluto rispetto filologico dell’autenticità delle sue versioni.

Ben venga, allora, dalla Spagna, se riportata in auge in teatro, l’ennesima variazione di pugno dell’autore, che tracci l’inizio del solco di un meritato e rinnovato interesse complessivo per la produzione operistica belliniana, ricordata in questa sede, in particolare, nella ricorrenza del 180° anniversario della morte del genio catanese.

© Natalia Di Bartolo

PHOTO © NATALIA DI BARTOLO, AA.VV.