Spettacolo, vezzi e malvezzi: le fiction televisive – istruzioni per l’uso

By Natalia Di Bartolo–


imagesIl telespettatore italiano di una certa età, appassionato illo tempore al teleschermo in bianco e nero, ha oggi la gioia, a volte l’emozione, di incontrare nuovamente sugli schermi piatti digitali di casa delle pietre miliari della propria vita di utente della allora unica TV nazionale: la RAI, quella con una rete sola, che allora si denominava “canale”…quando i canali divennero due si gridò alla fantascienza. Oggi sono 5 e più e proprio al “quinto canale” o zone limitrofe capita piacevolmente d’imbattersi, nel XXI secolo, in memorabili serate televisive grigie solo per il colore dello schermo. Grande teatro, allora, l’imprinting teatrale per molti, ma anche grandi “sceneggiati televisivi” e che adesso, per la solita esterofilia che contraddistingue i tempi, vengono denominati “fiction”.

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Raoul Grassilli
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Paolo Carlini

Tirar fuori dalla storia personaggi antichi e moderni e porgerli al grande pubblico degli spettatori a casa è sempre stata la passione di molti sceneggiatori e registi, i quali hanno spesso legato il proprio nome a produzioni televisive definibili addirittura leggendarie, come, per esempio, “Le mie prigioni”, dal romanzo di Silvio Pellico, per la regia di Sandro Bolchi, RAI, 1968, che resiste ancora oggi, perfino su youtube, al tempo, alle mode, al digitale ed a tutte le diavolerie che da allora hanno invaso i set, negli occhi cerulei e trasognati di Raoul Grassilli e nella maschia bellezza di un Paolo Carlini che ci ha lasciati troppo presto.

La parola “fiction” si presta ben più di “sceneggiato” ad un’assonanza con “finzione”; il che non è detto che sia producente per lo spettacolo che venga ammannito al telespettatore medio della prima serata, che, magari, stanco dal lavoro, sprofonda nel divano preferito e si dà anima e corpo al piccolo schermo.

Porgere, allora, a costui una “fiction” di qualità ? Non ne vale la pena, pensano probabilmente i produttori: con le sit-com (ecco, l’anglismo ritorna inesorabile!) ci siamo. Vanno bene per distrarsi un tantino, senza troppo impegno: leggerine, divertenti, un po’ sconclusionate, “codificate”, quasi, nei propri canoni (il prete, la prof, il nonno, etc. etc.), godono spesso della presenza di celebri attori che hanno la capacità Houdinesca di riciclarsi senza rispettare date di scadenza alcuna.

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Terence Hill nei panni di Don Matteo

In tal caso, il telespettatore sorride, si rilassa, ringrazia e, soprattutto, sonnecchia. Se, invece, detto spettatore spaparanzato sul divano, che divide con moglie, figlio/i e, magari, gatto di casa, “toppa” (e ci risiamo!) con una fiction di matrice drammatica, il discorso cambia.

Può non cambiare granché, quando si tratti di argomenti inventati e romanzati, che, in fondo, con le loro serie e ritorni (I, II, il riscatto, la vendetta, il giovane, etc., etc…Ora è di moda anche al cinema, con prequel, sequel, e quant’altro…è superfluo, ormai,  sottolineare ulteriormente quanto inutile pare sia stato da parte del grande Alessandro “risciacquare” i romanzeschi “panni in Arno” e si prosegue su questa linea anglofila), con puntate innumerevoli ed altrettanto innumerevoli ed improbabili personaggi ed intrecci, costituiscono anche un ottimo ed abbondante sonnifero, innocuo e talvolta utile a taluni membri della famiglia (gatto incluso); cambia tutto radicalmente, invece, se il protagonista della fiction in questione sia realmente esistito.

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Philippe Leroy come Leonardo da Vinci

Spiegare perché il discorso cambi non è così semplice come possa apparire a prima vista: chi non ami le lacrime d’immancabile commozione, oppure, chi non trovi proprio nulla per commuoversi come adora fare in tali occasioni, oppure ancora chi decisamente detesti in toto il genere “fiction” ha sempre il telecomando per cambiare canale: questo è vero.

Ma c’è un caso limite che va sottolineato e approfondito: la fiction biografica. E’ seguita a furor di popolo, come recitano gli indici d’ascolto immancabili. Cosa può rendere, allora, così diverso dal solito l’impatto del pubblico, che, con tale genere di prodotto si presenta davanti al video in quantità numerica impressionante? Il fatto che, oltre che cambiare il “genere” di spettacolo, cambi, o, meglio, “si aggiunga” anche “tipo” di spettatore.

Infatti, se è pur vero che il lavoratore stanco è probabile che si addormenti ugualmente, insieme a moglie, figli e gatto di casa, è anche vero che facciano capolino davanti al video, alla fine del Tg1 delle h. 20.00 e di ciò che inevitabilmente lo segue, tanti occhietti, che di solito non guardano le fiction, né le sit-com, né le drammatiche, ma preferiscono i film o i documentari o altre produzioni, se non addirittura lo stereo di casa ed i propri cd.

Chiedersi perché tanti occhietti vispi e molto attenti si piazzino davanti al video per le fiction biografiche è spontaneo, ma la risposta è altrettanto spontanea: amano le storie con un fondo di verità. Attenzione: non le storie “vere”, ma quelle che abbiano un “fondo” di quella verità storica che i ricercatori, invece, professano quale scienza tra libri e documenti di polverosi, affascinantissimi archivi e biblioteche varie.

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Puccini, sceneggiato con Alberto Lionello

Assodato che gli amanti del “veridico” stiano già piazzati col naso sul teleschermo, si riflette sul fatto che perfino gli studiosi ed i ricercatori non siano indenni da curiosità di tipo televisivo. Ed eccoli, allora, presenti anch’essi, insieme ai lavoratori stanchi ed agli appassionati delle storie più o meno “vere”: ecco gli studiosi che si piazzano davanti al video ed attendono al varco lo snodarsi della vicenda; non hanno bisogno di taccuino alcuno: i loro appunti li hanno tutti a memoria e ci hanno lavorato tanto e con tanto amore, che sono diventati parte delle loro sinapsi, con gran conforto della materia grigia che di tali appunti si nutre e vegeta rigogliosa.

E cosa si ritrova davanti lo studioso (il quale non è detto non abbia anch’egli accanto moglie, figli e gatto)? Innanzitutto, spesso e volentieri, uno sceneggiato in costume, in un’ambientazione che può già da sé provocare dissensi, specie se si riconoscano i luoghi dove si girano le scene, nonché si evidenzino agli occhi esperti eventuali imprecisioni scenografiche, costumistiche e chi più ne ha, più ne metta. Ma ciò che è posto al vaglio da costui, al primo posto e con una precisione matematica ed inflessibile, è la veridicità della vicenda storica, che deve essere trattata in ogni sfaccettatura e da ogni punto di vista: guai a tralasciare qualcosa; se poi si tratti di un musicista, apriti cielo se venga tralasciata una sola sua nota!

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Alessio Boni nei panni di Giacomo Puccini

Se questo, quasi inevitabilmente, succede, ecco, allora, venir fuori i dissensi più clamorosi: “Il protagonista della vicenda è realmente esistito! Come si può rendere marginale la sua produzione e/o addirittura “cambiare” la storia?” si chiedono e chiedono indignati gli studiosi.

Per provare a dare una risposta, iniziando dalla mancata espressione della produzione artistica del soggetto musicista, questa, di solito, sta troppo in alto, rispetto allo sceneggiato, e si ritiene che sia segno di buon senso da parte degli autori “marginalizzarla”: il loro lavoro si accartoccerebbe miseramente sotto le prime tre o quattro note di tanta Arte! Meglio commissionare e far comporre una bella colonna sonora, nella quale inserire opportunamente “qualche” brano originale del protagonista. Mani avanti: è sempre meglio! E già lo studioso si torce le sue, di mani…E allora, la Storia, scienza e come tale esatta, che fine ha fatto? E qui sta il punto nodale.

La Storia, purtroppo, è vero, viene cambiata, a volte: imprecisioni, errori di date, situazioni inventate, “discronie” nella vicenda, personaggi inesistenti o mal inseriti sono solo alcune delle “perle” che gli studiosi-telespettatori inghiottono malvolentieri, come la perla nel calice avvelenato della regina Gertrude in “Amleto”. Eppure sono curiosi e, per la maggior parte, le inghiottono proprio tutte, per vedere “come va a finire”. E, di solito, va a finire più o meno come finì nella realtà, con la morte del protagonista, porta in maniera più o meno “soft”, concludendo una storia cominciata appena due ore prima: davvero poco per “contenere” la vita di un genio!

Ed ecco, allora, illustri e meno illustri voci stentoree che si levano alte, lanciando anatemi a questo ed a quello e decretando la fine conclamata della televisione di qualità, perché non si tratta in tal modo materia così nobile e, soprattutto, reale.

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Alessio Boni nei panni di Caravaggio

Magari li si critica per la loro “ipercritica”, ma, riflettendoci, cosa sta in mezzo tra l’inizio e la fine dello sceneggiato? Un’intera vita, una vita vera, che è stata vissuta…e quindi può anche apparire legittimo che possa dare fastidio vederla alterata per sciatteria o per blandire il telespettatore di bocca buona, che, senza saperlo, si accontenta. Dove sta il punto, allora? E’ davvero impossibile accontentare tutti? E’ inevitabile che qualcuno resti scontento? E’ da ritenere che sia pressoché inevitabile… A meno di casi come quello del Pellico, citato all’inizio.

Come hanno fatto, quasi cinquanta anni fa, a creare uno sceneggiato televisivo che ancora oggi possa essere gradito a tutti e possa “reggere” ardui confronti? Che misterioso ingrediente si cela in quella sceneggiatura, in quella regia, nella recitazione di quegli attori e quant’altro? Semplicemente una capacità di scelta dell'”indispensabile vero” e l’uso che se ne faccia.

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Raoul Grassilli come Silvio Pellico

Quale sarebbe tale “indispensabile vero”? Il “romanzato” (da un romanzo, sia pure biografico , oltretutto)? Troppo fasullo per tutti. La via di mezzo? Complicherebbe la vita ai desiderosi di riposare, ma scontenterebbe ugualmente gli amanti del veridico e la “nicchia” degli studiosi. Tutto vero il più possibile? Trecentosedici puntate di tre ore ciascuna, tre volte al giorno, prima e dopo i pasti…Chi resisterebbe a vederle tutte? Neanche gli studiosi più eroici. Insomma, ragionando in questi termini, pare proprio che non ci sia una soluzione.

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Il regista Sandro Bolchi

E allora, questo Silvio Pellico di Bolchi? Miracolo? No, solo la giusta, rara “ispirazione” che porti gli autori alla scelta azzeccata di ciò che possa reputarsi correttamente il suddetto “indispensabile vero”: le colonne portanti della realtà di una vita. Difficile azzeccarle, ma quando ci si riesce, il più è compiuto. E l’uso che se ne faccia? Abilissimo “mestiere”.

Tanto di quel mestiere ben fatto che, distratti dall’emozione appena trascorsa, gli studiosi passino sopra a qualche “taglio” un po’ azzardato; tanta capacità registica ed interpretativa (che sconfina davvero nell’ispirazione artistica), che i “commovibili” del veritiero possano piangere a volontà e non si accorgano di qualche strafalcione seguente (inserito apposta per far filare meglio la trama: giusto una di quelle due o tre parole che gli studiosi non si ricordino il protagonista aver pronunciato); tanta di quella abilità, da far comprendere al sonnecchiante cosa si stia perdendo, se si addormenti col gatto in braccio, e gli tengano gli occhi ben aperti con immagini e suoni inconsueti alle sit-com; il che, alla fine, gli possa far dire: “Mamma mia, stasera mi sono fatto una cultura!”

Conclusione? Tutti contenti e, come fece dire il grande Peppino al suo Falstaff: “Tutti gabbati!”. E dunque, anche in un caso di cotanta corale unanimità che grida al capolavoro ci si dovrebbe davvero arrabbiare? Ma no! si stia semplicemente al gioco, perché, nello spettacolo, nelle fiction, nei gloriosi “sceneggiati”, solo di un gioco si tratta: la vita vera, quella di chiunque, è tutta un’altra cosa.

 

© Natalia Di Bartolo