Prosa in musica: l’ideazione e la realizzazione del Melodramma

Written by Natalia Di Bartolo —


 

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L’ideazione:

Accademico, musicista, letterato, mecenate, politico, militare, Giovanni Maria Bardi dei Conti di Vernio fu un rappresentante di grande interesse della cultura tardo rinascimentale italiana, creando ed animando la cosiddetta “Camerata Fiorentina” (o, dal suo cognome, “de’ Bardi”), un Cenacolo di artisti ed intellettuali che faceva accademia nel suo Palazzo, per trattare i grandi temi legati all’Arte Classica.

Tra il 1576 e il 1592, i poeti, i musicisti, i letterati e gli uomini di cultura in genere facenti parte di quel Cenacolo, approfonditamente e con cognizione di causa, discutevano di svariati argomenti, dalla scienza, alla poesia, alla musica. In particolare, nell’ambito delle dotte discussioni sull’arte musicale e sul suo rapporto con la “parola”, le ricerche di Giovanni Bardi e della sua Camerata si rivelarono di grande interesse e giunsero ad assai innovative conclusioni.

Nella fattispecie, nell’esaminare con il Bardi il rapporto tra il suono, la parola e lo spazio scenico, allora si conveniva in molti che fosse ora di cambiare: la sola Polifonia non bastava più; occorrevano idee nuove, una nuova linfa, per rinnovare lo stile ed il contenuto della musica ed anche l’affezione del pubblico colto a tale Arte ed accrescerne l’interesse.

Per convenzione, le opere Polifoniche, che rappresentavano allora la quasi totalità delle produzioni musicali, erano “codificate”; eseguite a più voci, erano strutturate in modo che le voci che cantavano si sovrapponessero e si affiancassero in chiaroscuri e modulazioni, fino a formare “accordi” perfetti, in evoluzioni virtuosistiche di rara difficoltà e ricercatezza compositiva e, di conseguenza, esecutiva. In altre parole, il coro diventava come uno strumento musicale, da cui il direttore, con i dovuti sistemi, traeva il risultato d’insieme, che l’autore aveva scritto proprio per dargli questa possibilità ed a questo scopo. Non a caso, in alcune Corali Polifoniche, il direttore, ancora oggi, dispone i soprani alla sua destra e le altre voci a seguire (ovviamente in più file, se numerosi): proprio perché egli, in maniera figurata, “suona”, come su una tastiera, lo “strumento coro”. Tutto ciò, ovviamente, non favoriva (né mai favorirà) la comprensione del testo, perché le frasi musicali s’incrociavano e sovrapponevano, appositamente scritte, come prima accennato, per rendere tale risultato. La dizione del testo, quindi, era assolutamente subordinata al risultato armonico finale.

il balletto della notte torelli

Questo era, allora, plausibile nelle Messe del ‘300 o nei mottetti, ma dopo la grandiosa evoluzione che era seguita a tali composizioni nel ‘400 e con l’abilità dimostrata dai compositori del ‘500, autori di madrigali a cinque e sei voci e, addirittura, a più cori, l’antica Polifonia non riusciva più a saziare la fame d’arte musicale che tormentava la Cultura del periodo. Non è il caso di farne, però, come alcuni hanno opinato, solo un problema di “comprensione delle parole” da parte del pubblico: sembrerebbe riduttivo. Si dovrebbe, invece, leggere nelle discussioni della Camerata Fiorentina più la ricerca del gusto per la parola (che si sarebbe voluta inclusa, da protagonista alla pari, nell’ambito della frase musicale), per l’azione scenica e per la “visione” gradevole e coinvolgente; cose che un Canto Corale, sia pur raffinatissimo, non poteva offrire: esso, nella sua essenzialità (ovvero escludendo pompose scenografie ed artefatte coreografie di flessuose, ben abbigliate comparse che lasciassero godere anche l’occhio dell’inclito spettatore), offriva nulla più che un puro “piacere” armonico e melodico.

Nel dotto Cenacolo, si cercò, allora, di ideare un nuovo genere musicale, che ovviasse agli “inconvenienti” del canto “collettivo”. Se ne intravide la soluzione, ovviamente, nell’introduzione del canto singolo: far cantare un testo alla volta da una sola persona poteva favorire l’idea di mettere in scena qualcosa di diverso e, quindi, destinato non più prevalentemente alla chiesa o alle grandiose feste rinascimentali, ma soprattutto al teatro, fino ad allora ambiente artistico appannaggio della Prosa.

A che genere di dizione teatrale, dunque, rivolgersi, per orientare tale nuovo esperimento? In ambito accademico, si ricorse, ovviamente, alle nobilissime risorse della tragedia greca, che nell’Umanesimo aveva ritrovato nuova linfa e nuovi studiosi ed appassionati e che godeva anche allora di altissima considerazione. La monodia greca, quindi, fu presa in esame quale esempio di “musica pura”, in quanto non solo appartenente alla classicità, ma chiaro esempio melodico e ritmico “parlato”, per via della metrica che obbligava a modulare i suoni ed a spostare gli accenti consueti delle parole a seconda del metro usato. Si cominciò a studiarla con l’intento di creare qualcosa di altamente innovativo.

Ma la soluzione, che portasse ad un “moderno” risultato concreto, non era certo facile, né a portata di mano, anche se si teorizzò una “messa in musica” del testo recitato dall’attore. Ma come? E quale testo? Un’intera tragedia traslata in musica avrebbe potuto risultare prolissa ed astrusa. Già l’idea di vedere ed ascoltare l’attore che cantasse invece di recitare era alquanto sconcertante. Si cominciò, allora, a studiare anche la teoria musicale greca.

La tragedia greca, non dimentichiamolo, comprendeva anche la musica, di cui, purtroppo, ben poco c’è rimasto; il coro non recitava, ma cantava. Studiare quasi soltanto teoricamente tali misteriosi meccanismi, sospesi tra la prosa e la musica, non fu cosa da poco. Si obiettò che, comunque, l’etimologia della parola “Polifonia” portasse a tradurre il vocabolo in “Molti suoni” (poliùs-fonòs=molti suoni e/o voci). Anche il nuovo genere che si ricercava, allora, avrebbe fatto parte della Polifonia? Si desiderava far nascere, invece, qualcosa di nettamente diverso, un’espressione musicale e, nello stesso tempo, teatrale che, ancora, non possedeva un nome. Realizzare, quindi, quel “recitar cantando” di cui Baldassarre Castiglione, già nel 1528, aveva scritto: “(…) parmi gratissimo il cantare alla viola per recitare; il che tanto di venustà ed efficacia aggiunge alle parole (…)”.

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La realizzazione:

Tra i primi esperimenti di “teatro musicale” (chiamiamolo originariamente così), nacquero gli Intermedi a “La Pellegrina” di Bargagli, nel 1589. Ma, per raggiungere pienamente l’obiettivo prefissosi, occorreva rendere tutta un’opera rappresentabile col canto e si convenne nuovamente che i vetusti testi originali mal si prestavano, per complicazione e lunghezza, nonché per difficoltà di applicazione della musica al testo, alle nuove esigenze che non dovevano annoiare, ma attrarre lo spettatore. Nacque, così, la figura del “Librettista”, ovvero dello scrittore che traduceva e riduceva in versi gli antichi testi in un nuovo “libretto” dal testo reso musicabile. Tale, spesso ingrato e poco considerato, compito ebbe poi grande evoluzione e, soprattutto nell’800, divenne un vero e proprio “mestiere”.

Il primo “libretto” fu scritto da Jacopo Corsi e Ottavio Rinuccini e si intitolava “Dafne”. Musicato da Jacopo Peri, andò in scena nel 1598. Ma mancava ancora quel “quid” che rendesse originale ed a sé stante il nuovo genere, che veniva sperimentato e testato su un pubblico certo abituato a ben altre rappresentazioni. Fu Claudio Monteverdi, che si era dedicato alla drammaticità anche nei madrigali, ad avvicinarsi per primo al risultato tanto ricercato, con l’“Orfeo”, nel 1607.

La musica venne plasmata dall’autore in base alla necessità drammatica. Il canto mutava nello svolgersi della vicenda, trasformandosi, a tratti, in recitativo, per poi assumere il carattere di “aria”, con l’intermezzo di innovativi duetti, mutando il metro dei versi da binario in ternario e viceversa, cambiando ed evolvendo continuamente nel seguire la vicenda. Come chiamare il nuovo genere appena nato? Si scelse il termine più adatto: “Melodramma”. “Mèlos”, in greco antico, significa “Musica”. L’etimologia dell’altra metà della parola è chiara. Non era il caso di tradurla “tragedia”, ma, piuttosto, proprio “dramma”, da “dràgma” che, sempre in greco antico, significa “rappresentazione teatrale” in genere, senza distinzione fra tragedia e commedia.

Il fatto, poi, che nei primi Melodrammi si scegliessero temi mitologici è indicativo della creazione di un “genere” comunque aulico, diretto ad un pubblico colto, in tacito, abile riferimento a quanto contasse la distinzione fra “Tragodìa” e “Comodìa”, che si operava nel teatro greco.

Ed il coro scomparve? Niente affatto. Anzi, diventò anch’esso “personaggio”, sempre amalgamato in se stesso, ma un tutt’uno con lo svolgimento della trama. Così come nel Teatro Greco Classico il Coro era importante poiché, di solito, esprimeva il compianto, la gioia, il cordoglio, la solidarietà del popolo con i protagonisti del “dramma”, ma anche la voce del drammaturgo (una specie di “coscienza collettiva”, o, meglio, un’entità che traeva spesso “la morale” della narrazione scenica); allo stesso modo lo fu ancora nel Melodramma. Esso si amalgamava all’azione, diversamente da ciò che accadeva nella statica Polifonia, e cantava in maniera meno sovrapposta ed ingarbugliata, anche in modo che si potesse capire ciò che si dicesse.

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Nel coro del Melodramma giocavano svariati fattori, che in un coro polifonico, sia pure eccelso, non potevano sussistere. Il corista anonimo della Polifonia doveva amalgamare la propria voce con quella degli altri cantori e creare un tutt’uno armonico con loro. Allo stesso modo, nel Melodramma la voce del singolo corista, pur sempre anonima, si amalgamava con quella degli altri, ma seguendo linee melodiche ed armoniche che spesso andavano all’unisono, per lasciare “parlare”, cantando, con maggiore chiarezza anche il “Personaggio Coro”.

Era nato, dunque un “Genere Musicale” nuovo e completo in tutte le proprie parti: c’era un’epoca in cui il dramma scenico era collocato; c’erano i personaggi (cantanti solisti), c’era il coro, l’orchestra, le scene, i costumi. Non c’era, invece (almeno come “figura canonizzata”), il Direttore d’orchestra. Strano, ma vero. Dalla nascita del Melodramma fino ai primi dell’800 (Bellini compreso, per esempio), la figura del “direttore d’orchestra” non esistette, per come la intendiamo oggi, ovvero con un Maestro in piedi su un podio con la bacchetta in mano. Nel golfo mistico, nome corretto della cosiddetta “buca dell’orchestra”, gli orchestrali suonavano di per sé e l’autore delle musiche, soprattutto alle “prime” rappresentazioni, sedeva al cembalo e da lì tastava gli umori del pubblico, riceveva gli applausi e le chiamate al proscenio o si sorbiva i fischi e le bordate di critiche e schiamazzi in caso di “fiasco” (situazione non rara, ai tempi). I primi direttori d’orchestra salirono regolarmente sul podio a dirigere il Melodramma solo verso la seconda metà dell’800.

Il nuovo genere musicale, nel tempo, si sarebbe evoluto, modificato, esaltato, arricchito, fino a giungere a noi. Dagli dei ed eroi greci, primi protagonisti, agli eroici trovatori, condottieri e principi del romanticismo, ai popolani del verismo, ai personaggi moderni delle Opere a noi contemporanee, il Melodramma si è popolato di “caratteri” e “trame” disparate e spesso variopinte, eroiche o lacrimevoli, favolistiche o tragiche, moralistiche o “buffe”, in un caleidoscopio che rende ancora più affascinante e ricca la Storia della Musica ed il patrimonio d’Arte a nostra disposizione. E’ stata proprio la Musica a “trainare” i testi nel percorso d’evoluzione del Melodramma, facendo da protagonista; ma i testi hanno agito, con non indifferente influenza, da base e da collante. E pensare che il tutto proviene soprattutto da Firenze, da un cenacolo di geniali “pensatori”, cultori della “parola”, ai quali non si può che essere, con reverenza, eternamente grati.

Natalia Di Bartolo